// di Marcello Marinelli //
Che cosa mette d’accordo tutti gli esseri umani senza distinzioni di sesso, razza o religione da un capo all’altro del mondo e attraverso le varie epoche storiche? C’è solo una cosa che mette d’accordo tutti indistintamente, una profonda consapevolezza, oserei dire una tragica consapevolezza, un destino ineluttabile che accomuna tutta l’umanità in cerca di senso; la morte, quindi la coscienza del nostro essere mortali. Era solo per dire che su tutto il resto dello scibile umano si può discutere e legittimamente ognuno può dire la sua senza mai arrivare ad una fine scientificamente e oggettivamente certa per tutti; ad esempio si può discutere, entrando nel microcosmo musicale, e poi ancora nel microcosmo musicale della musica jazz, sull’importanza o meno, sulla relazione positiva o nefasta, tra orchestre d’archi e musica jazz, tra musica colta e musica improvvisata. Il disco in questione uno tra i tanti, mette il dito nella piaga, si fa per dire, tra i detrattori, i più, e gli osannatori di questo tipo di miscellanea.
Per quanto mi riguarda non sono né l’uno, né l’altro, non metto limiti alla provvidenza e decido di volta in volta, in base ai miei gusti, perché ritengo, che, nonostante ci siano strumenti ricorrenti e tradizionali nel jazz che ne hanno fatto la storia, tutti gli strumenti, compresi i famigerati archi, se utilizzati bene possono essere piegati allo scopo finale, ovvero creare buona musica innanzitutto e anche buona musica jazz. Certo l’effetto orchestra d’archi crea atmosfere di un certo tipo per forza di cose diverse dalle big band jazz, crea un certo tipo di sound e quel sound deve piacere, altrimenti inutile sentirlo, meglio passare ad altro. Ironia della sorte, uno dei capolavori della musica nera, “What’s Going On” di Marvin Gaye è un esempio mirabile di come due mondi lontani possano coesistere e anzi creano un universo sonoro talmente originale, che la ‘blackness’ non solo non è compromessa, anzi ne esce arricchita, e quel disco è uno dei più bei dischi della musica nera. Ovviamente già all’epoca la critica era divisa, perché esistono sempre più scuole di pensiero, e per fortuna, e allora un critico musicale, un tal Robert Christgau del Village Voice definì gli arrangiamenti orchestrali di David Van De Pitte in “What’s Going On” “il tipo più scadente di musica da sottofondo cinematografico”. Ognuno ha le sue idiosincrasie per particolari strumenti o per particolari formazioni, ad esempio a me non attrae la formula due piani e anche mostri sacri come Chick Corea e Herbie Hancock che si sono cimentati in questa formula non mi hanno fatto impazzire.
A proposito del disco in questione ho letto una recensione di un critico che commentava questo disco che riporto integralmente: “Ne esce una raccolta di brani che hanno poco di jazz, adatti a far da contorno a cene lussuose, a suonare nelle hall di alberghi di lusso, nelle sale d’attesa di moderni aeroporti o a ricevimenti d’alto lignaggio”. Non saprei dire che cosa abbia condizionato Haden, se un obbligo contrattuale o qualche sentimento patriottico in linea con le fobie dell’opinione pubblica statunitense, ma resta il fatto che “American Dreams” è un disco piatto. Ora per quel che mi riguarda ritengo ogni pensiero legittimo, perché come diceva il filosofo Locke dialogo o tollerare significa che l’altro possa avere un gradiente di verità superiore al proprio, allora partendo da questa premessa considero diversamente alcuni assunti di partenza comuni ad entrambe le critiche negative sul sound di orchestra di archi, senza demonizzarle; il primo riguarda la cosiddetta musica da sottofondo per cui tutto ciò che è sottofondo è disprezzabile. Tutta la musica, anche la più grande può essere utilizzata come sottofondo, se ad esempio, metti “Ballads” di Coltrane quale musica migliore ci può essere come sottofondo di una cena romantica, non necessariamente lussuosa oppure nelle sale d’attesa di un aeroporto o in alberghi non necessariamente di lusso.
In giro per Tokyo una delle città, come tutto il Giappone, più sensibile al fascino della musica jazz, in quei non-luoghi come ad esempio le gallerie dei centri commerciali, ho sentito con le mie orecchie musica jazz di altissima qualità in sottofondo, Sonny Rollins tra tutti. Nella hall di un alberghetto non lussuoso, nella stessa città sentivo in sottofondo un bel brano jazz di un pianista a me sconosciuto, col fido “Shazam” ho individuato il pianista, era un nostro connazionale, Antonio Faraò, con mio grande stupore. Questo per dire che quello che funziona come sottofondo può funzionare anche con il volume ‘a palla’, mai disprezzare il sottofondo a priori, e poi la musica, per come la intendo io è un perfetto sottofondo. Io che ho la fortuna di poter ascoltare la musica per parecchie ore al giorno, necessariamente è spesso relegata a sottofondo, sonorizza la vita per renderla migliore. Poi gli appassionati di musica classica ai concerti sono seduti in religioso silenzio davanti ai musicisti in una sala da concerto, questo per dire che la musica con gli archi non debba sempre essere sentita sempre come sottofondo. Poi c’è la musica da film, le colonne sonore, che a volte sono mero contorno e vero sottofondo, altre volte sono forme d’arte assestanti, quindi ogni cosa va valutata caso per caso con tutti gli accorgimenti possibili. Poi sul gradiente jazz del disco in questione o sul suo piattume ognuno la pensi come vuole. Potrebbe sembrare un po’ mellifluo il disco? Può darsi, a tratti, diciamo che soddisfa il mio bisogno fisiologico di ‘mellifluo’, a volte ho bisogno di questo come di centinaia di altre cose.
L’inizio del primo brano “American Dreams” la cavata riconoscibile di Haden con l’orchestra che l’accompagna è una chicca, poi l’orchestra tace il piano di Melhdau e le bacchette di Brian Blade , poi di nuovo il contrabasso solo con l’orchestra diretta da Alan Broadbent. Charlie Haden per me è stato un pò il Re Mida, come altri mostri sacri che tutto quello che toccano, o quasi tutto hanno trasformato in oro o in metallo prezioso. ‘Travels’ il secondo brano, una bellissima melodia di Pat Metheny e Lyle Mays interpretata magistralmente da Michael Brecker e dal trio aggiunge un altro tassello di musica ad alta intensità con l’arrangiamento di Vince Mendoza, in ‘sottofondo’ dove tutto si confonde un tappeto synths, al posto dell’orchestra, e gli assoli di Mehldau e Brecker rendono ancora più bello il pezzo, per chi vuole apprezzare questo tipo di sound. Solo questi primi due pezzi valgono il prezzo del disco. “No Lonely Nights” il brano di Keith Jarrett ancora Alan Broadment alla direzione. Qui credo, non nel senso di credere ciecamente, ma di valutare col beneficio d’inventario, che l’equilibrio tra il quartetto e l’orchestra sia perfetto, ma non vorrei urtare la suscettibilità di qualcuno. “Might Be You” un dialogo tra il sax tenore e l’orchestra, una domanda sorge spontanea ‘Chi contamina chi?’. ‘Prism’ un altro brano di Jarrett e qui suona solo il quartetto senza orchestra. “America The Beautiful” continua con l’alternanza quartetto orchestra con ancora un assolo di Haden in evidenza. Certo l’atmosfera generale del disco è uniforme e per quel critico citato prima è piatta, ma qui le parole svolgono il loro ruolo di interpretare le sensazioni e di avvicinarsi approssimativamente alla ‘verità’ questa sconosciuta. In un disco si mantiene tutto ad un certo livello di intensità? No. Non tutti i dischi sono capolavori quindi in ogni disco ci sono momenti di stallo o quello che noi crediamo di stallo, ad ognuno il suo stallo.
Il disco si mantiene fedele all’atmosfera da ballads con orchestra o senza. Con “Ron’s Place” solo quartetto il tempo si fa medium invece che slow. Ancora slow con “Bitterweet” e “Young Foolish”. Con “Bird Foot” di Ornette Coleman si vira averso atmosfere Colemaniane che il tipico incedere contrabbassistico di Haden contraddistingue. “Sotto voce” di Vince Mendoza, oltre che un omaggio alla nostra lingua, è anche il leit motiv dell’intero album, appunto sotto voce, anche in questo brano orchestra assente e tappeto di synth. Brano molto bello e romantico con Brecker particolarmente ispirato. Il disco finisce con “Love Like Ours” con il quartetto e l’orchestra diretta da Jeremy Lobbock sulla falsariga delle precedenti tracce. Penso che ogni giudizio su una singola opera deve essere inserita nel contesto dovuto quindi per apprezzare o meno questo disco come qualsia altro bisogna essere sgombri da qualsiasi pregiudizio, magari poi sentendolo, rimarcandolo, perché alla fin fine quello che cerchiamo, aldilà della curiosità intellettuale che a volte ci guida, è sempre la gratificazione estetica sensoriale e quindi per concludere, ogni singola opera è bella perché ci piace senza aggettivazioni o dispendio di parole, e lo dico io contraddicendomi, che di parole ne ho impiegate oltre il dovuto.