// di Francesco Cataldo Verrina //

Charles McPherson – «Bebop Revisited», 1964

Andrew Gilbert della Voce di Los Angeles sintetizzò in maniera calibrata le caratteristiche di Charles McPherson: «McPherson perfeziona costantemente l’approccio personale fondendolo agli idiomi ritmici e armonici del bebop, tanto da far sembrare tutto ciò che suona senza tempo, logico ed emotivamente tagliente». In modo appropriato, potremmo aggiungere che la musica di McPherson sia una perfetta miscela di raffinatezza urbana e passione giovanile in grado di combinare ardore ed eleganza in egual misura, qualità che l’altoista ha costantemente coltivato, prima al seguito di due illustri mentori quali Barry Harris e Charles Mingus, con cui ha realizzato quasi due dozzine di album ed, in seguito, con accreditati partner di studio come Eric Dolphy e Eddie Jefferson.

Pur essendo sfuggito spesso alle cronache del jazz ed alla penna di illustri narratori, nel corso di una lunga carriera McPherson (ancora in attività, anche come docente) si è affermato come uno dei massimi stilisti del suo strumento, nonché in veste di compositore e band-leader. La magistrale abilità con il sax alto e l’ingegnosità nell’improvvisazione sono state pari, forse, solo al fermo rifiuto di diluire e derogare la propria visione artistica al fine di ottenere immediati guadagni in termini commerciali o facili consensi di pubblico e di critica. Nonostante sia diventato, nel tempo, uno delle guest-star più presenti e richieste al Jazz Lincoln Center, l’obiettivo del sassofonista è sempre stato quello di creare un costrutto sonoro personale e significativo che provocasse e premiasse l’ascoltatore più attento e selettivo, piuttosto che assecondare il minimo comune denominatore del gusto.

Contestualmente alla sua fitta attività di sideman, Charles McPherson esordì come band-leader nel 1964 per la Prestige con l’album «Bebop Revisited!», piazzandosi nel 1967 al primo posto tra i contraltisti in un sondaggio organizzato dai più importanti critici americani. Nel 1939, all’età di 9 anni, McPherson si trasferisce a Detroit, città ricca di fermenti musicali, che ospitava una delle comunità jazz più vivaci di quegli anni e destinata a diventare la culla del soul moderno con la Motown. La nuova abitazione del giovane contraltista era situata nello stesso quartiere del suo futuro mentore, il pianista Barry Harris, così come quella dell’amico e compagno di avventure, il trombettista Lonnie Hillyer, ma soprattutto a pochi isolati dall’abitazione di famiglia c’era il famoso jazz club «Blue Bird Inn». Questo il ricordo del sassofonista: «Nel quartiere in cui vivevo, abitava anche Barry Harris, proprio dietro l’angolo, a cinque minuti di distanza. Mentre il trombettista Lonnie Hillyer, che ha lavorato a lungo con Mingus insieme a me, viveva proprio nella mia stessa strada. C’era un jazz club a pochi isolati chiamato Blue Bird, che a quel tempo era probabilmente il locale più alla moda della città. Fu una vera fortuna che, in una metropoli come Detroit, fossi capitato nella stessa strada dove era ubicato un jazz club di prim’ordine. A quel tempo l’house band, che si esibiva regolarmente, era costituita da Barry Harris al piano, Pepper Adams al sax baritono, Paul Chambers o Beans Richardson al basso ed Elvin Jones alla batteria».

Dopo aver appreso i rudimenti del pianoforte, il futuro contraltista comincia a suonare il flicorno e la tromba nella band scolastica. Intorno ai 13 anni, però, il giovane McPherson decide bruscamente di passare al sassofono. Così racconta la sua folgorazione sulla via di Damasco: «Un giorno ero in un piccolo negozio di dolciumi dove c’era un juke-box con i dischi, tra cui Charlie Parker di cui mi aveva parlato un amico. Ho messo una monetina, e quando ho sentito «Tico Tico» dall’album «Charlie Parker South Of The Border» sono rimasto completamente senza parole. Avevo 13, non sapevo nulla di cambi o accordi, ma ho capito subito che quella sarebbe stata la mia strada».

Gran parte della sua conoscenza del jazz derivava dalla musica delle big band più popolari dell’era swing che passavano alla radio, così a 15 anni, il Nostro decide di studiare musica seriamente con Barry Harris e di perfezionarsi sul sassofono alla Larry Teal School of Music di Detroit, esercitandosi inter pares con alcuni coetanei tra cui Hillyer, Roy Brooks, Donald Walden, Louis Hayes e le future leggende della sezione ritmica della Motown, il bassista James Jamerson e il batterista Richard «Pistol» Allen. Questo il suo ricordo: «Quello che abbiamo fatto è mettere insieme i nostri soldi con cui abbiamo affittato un loft. Avevamo sette o otto chiavi ed, a qualsiasi ora della notte, chiunque poteva entrare e suonare. C’erano una batteria ed un pianoforte. Il locale era situato in un quartiere destinato agli uffici e agli affari dove, fuori orario, non c’era nessuno. Quindi potevamo entrare alle due del mattino e fare una session senza disturbare i vicini. Dovevamo esercitarci e basta, altrimenti non avremmo mai potuto suonare con i «gatti» più grandi».

Dopo essersi trasferito a New York nel 1959, il sassofonista si lega in un lungo sodalizio, durato circa 12 anni, a Charles Mingus, mentre a metà degli anni ’60 inizia a registrare assiduamente con altri musicisti, tra cui Barry Harris e Art Farmer, alternando il lavoro di sideman a quello di band-leader. Tra le opere più riuscite di questo periodo va segnalata «Newer Than New» (1961) del Barry Harris Quintet con Lonnie Hillyer alla tromba, Charles McPherson al sax alto, Barry Harris al pianoforte; Ernie Farrow al contrabbasso e Clifford Jarvis alla batteria. L’album mette in luce soprattutto il talento di McPherson e dell’amico Hillyer veri mattatori in prima linea. Il contraltista si distinguerà anche nel 1968 in un altro album di Barry Harris, «Bull’s Eye!», insieme a Pepper Adams, Kenny Dorham, Paul Chambers e Billy Higgins, ma il suo nome volava già alto grazie alla stretta collaborazione con Mingus. L’attività in proprio diventerà molto intensa a partire dal 1972, anno della separazione dal contrabbassista di Nogales. Seguiranno più di 20 album a suo nome, tra cui opere degne di nota come «Siku Ya Bibi» del 1972, «Come Play With Me» del 1995 e «Manhattan Nocturne» del 1998. Nel 1988, McPherson appare nella colonna sonora del film «Bird» di Clint Eastwood, dando voce al sassofono di Charlie Parker in diverse scene.

«Bebop Revisited!» del 1964, che lo stesso Charles McPherson definisce: «La mia prima volta allo studio Van Gelder come band-leader», è un esempio di hard bop di alta scuola basato su una potente prima linea formata McPherson e dal pianista Barry Harris, i quali elaborano una perfetta miscela di jazz che attinge al bop classico e alla tradizione, ma che guarda al futuro attraverso l’uso delle nuove dinamiche evolutive e strumentali. Tutte le tracce sono briose e suonate con un tono un po’ guascone e divertito, mai banali nella costruzione, per quanto dirette verso gli appassionati del jazz mainstream, senza particolari complicazioni o compiti difficili da svolgere. Registrato il 20 novembre del ’64 al Van Gelder Studio, «Bebop Revisited!» è il primo tassello della discografia di McPherson come solista, sviluppato quasi a quattro mani con il pianista Barry Harris, dove i due sodali riprendono alcune pietre miliari di Charlie Parker, Bud Powell e Fats Navarro con il supporto del trombettista Carmell Jones, del bassista Nelson Boyd e del batterista Al «Tootie» Heath. Il quintetto si misura con standard bop come «Hot House», «Nostalgia», «Wail» e «Si Si» insieme a un blues originale, «Embraceable You».

Charles McPherson – «Today’s Man», 1973

Scandagliando la variegata discografia di Charles McPherson, scopriamo una piccola gemma sfuggita al controllo dei radar, «Today’s Man». L’album fu registrato nel 1973 e pubblicato dall’etichetta Mainstream. Tenendo in considerazione alcuni fattori ambientali e culturali del periodo e le impervie e dissestate strade attraversate dal mainstream, si potrebbe pensare ad un’operazione nostalgia. L’ensemble, alquanto composito, soprattutto in alcune tracce, potrebbe far presupporre l’idea di aver voluto ricreare un’ambientazione stile big band: Charles McPherson sassofono contralto, Frank Wess flauto e sassofono tenore (tracce 1-3), Chris Woods flauto e sassofono baritono (tracce 1-3), Cecil Bridgewater, Richard Williams tromba e flicorno (tracce 1-3), Julius Watkins corno francese (tracce 1-3), Garnett Brown trombone (tracce 1-3), Barry Harris pianoforte, Larry Evans basso e Billy Higgins batteria. Nulla di più ingannevole: in primis perché l’insegnamento mingusiano trasudava ancora dai pori della pelle di McPherson; in seconda istanza, in tre tracce su sei, il line-up opera nel classico formato quartetto di parkeriana memoria.

L’influenza di Bird sul sassofonista appare solo come la cornice di un quadro che si riempie progressivamente di colori nuovi, tinte audaci e tratti marcati da una personalità autonoma e ben definita. L’altoista non ha perso il suo guizzo felino da bopper, ma l’esperienza con il contrabbassista di Nogales ha arricchito il suo repertorio espressivo, attraverso un rispetto diverso della punteggiatura. L’arte della collegialità e l’interesse per una partitura più ampia e complessa sono il contrassegno saliente di un album che meriterebbe ben altra considerazione e collocazione nell’economia globale del jazz moderno, specie in quello scorcio di anni ’70 quando distillare jazz in purezza era diventato quasi un esercizio clandestino e riservato a pochi eletti. Non si dimentichi che in quel decennio molti nomi della grande epopea bop vivevano raminghi per le contrade del Nord Europa, dove venivano trattati come esemplari in via d’estinzione da proteggere, mentre negli USA il jazz, almeno lo straight ahead, era stato relegato ad un ruolo subalterno e surclassato dall’elettrificazione tout court, nonché da nuovi fenomeni che estendevano a dismisura la progressione libera ed anarcoide o si piegavano cedendo all’elemento di fusione esterno.

L’album si apre con «Charisma», a firma McPherson, che dopo uno scrosciante inizio di fiati all’unisono, vede il contralto iniziare ad esplorare i sentieri di un bop intriso di elementi funky, a cui gli altri fiati fanno da sostegno e da contrappunto, imbeccati dal piano di Harris, mentre la sezione ritmica dalle retrovie macina chilometri senza sosta. A seguire una toccante versione di «Naima», dove il contralto di McPherson rifugge da ogni tentativo di clonazione dello spirito coltraniano, arrotondando ed attenuando i contorni con un suono morbido, nitido e spaziato, quasi a voler marcare la diversità, perfino il pianoforte di Harris diventa più lirico e narrante. L’arrivo di «Invitation» mette in luce tutti talenti di McPherson, il cui contralto emette una voce incantevole ed avvolgente in un rodato afflato con il pianoforte, il quale fertilizza un terreno di coltura assai riproduttivo per l’altoista che, a tratti, accoglie l’ondata fiammante della sezione fiati associata, che funge da spartiacque tra un assolo e l’altro. «Stranger In Paradise», motivo molto in voga negli anni ’70, riceve un trattamento di bellezza, soprattutto in fase improvvisativa si trasforma in un mid-range dal movimento swing, per poi subire una piacevole metamorfosi e riapparire nei panni di una melodiosa ballata. «Cheryl» di Charlie Parker è un omaggio ideale al suo mito di gioventù, ma è il piano dell’esperto Harris a governare l’impresa, dettare il tema e le regole, soprattutto ad impedire al suo ex-allievo di lasciarsi prendere la mano e tentare qualche via di fuga, eccedendo nei cambi troppo veloci e negli accordi a raffica. L’improvvisazione di McPherson, quasi disturbata dagli innesti pianistici coadiuvati dalla retroguardia ritmica, si colora di tonalità melodiche mai sentite prima nell’esecuzione di questo tema. In chiusura «Bell Bottoms», un’altra chicca composta dal titolare dell’impresa che sottolinea quanto il pianismo e gli insegnamenti del maestro-sodale Barry Harris, nonché il gusto per la reciprocità di mingusiana memoria fossero determinanti sulla scrittura e l’esecuzione di McPherson più del modello parkeriano.

Charles McPherson