// di Francesco Cataldo Verrina //

Per descrivere il primo capitolo della saga «Mare Nostrum» si potrebbe cominciare da una dichiarazione dello stesso Paolo Fresu, il quale confessa: «Ho un pessimo rapporto con il mare perché non so nuotare. Non sono un «acquatico», ma sono nato in un’isola e allora ho un rapporto più carnale, più poetico con il mare. Direi che mi piace immergermi con la mente e non con il corpo. Perciò spesso il mare torna nelle cose che scrivo».

In verità, l’affermazione del musicista di Berchidda non è un paradosso, poiché il Mare Nostrum, non è solo acqua, ma è terra, è storia, cultura, sensazioni, una poesia che diventa musica e vibra nell’anima dei popoli che nei secoli l’hanno solcato anche con fantasia. Culla di mondi sonori arcani e misteriosi, dove le onde trasportano echi di tradizioni millenarie, apparentemente dissimili ma saldamente collegate tra loro, il Mediterraneo è un intreccio di culture, un crogiolo di razze che s’incrociano e s’intersecano come nell’incontro tra Paolo Fresu, il fisarmonicista e bandoneonista francese Richard Galliano ed il pianista svedese Jan Lundren. La fusione a caldo di vari linguaggi fanno di «Mare Nostrum» una sorta di hub perfetto, un centro nevralgico di smistamento in più direzioni di componimenti ed interpretazioni di altissima qualità artistica, capaci di creare una sorta di «suono dell’Europa».

L’assenza di strumenti ritmici come basso e batteria rendono il costrutto sonoro onirico ed etereo, le atmosfere appaiono malinconiche ed avvolte da tinte autunnali e da languori esistenziali; si spazia dalla musica popolare svedese a Ravel, passando per Charles Trenet, Jobim e Vinicius de Moraes. L’impianto melodico-armonico è omogeneo e ben amalgamato, tanto che le composizioni originali si fondono mirabilmente con gli standard. Il rapporto intersezionale fra i sodali ne esalta la forma espressiva senza occultare le peculiarità dei singoli: basta un fugace ascolto dell’album per capire che l’algida solennità nordica di Lundgren si scioglie nella tenue solarità di Fresu con il sostegno della divertita danzabilità di Galliano.

Il disco dipinge un’immagine sonora del Mediterraneo, sinonimo di casa, di appartenenza, un inconscio collettivo, uno scambio continuo fra elementi diversi che si fondono in un ammaliante melting-pot musicale. Tra gli inediti più significativi spiccano «Para Jobib» e «Chat Pitre» di Galliano e «Mio Mehmet, Forse Il Destino M’impedira Di Rivederti» di Fresu. Tutti i brani diventano una sorta di terreno fertile e comune fra tre musicisti non convenzionali, abituati a procedere per i sentieri della musica sulla scorta del pensiero laterale, raccontano dell’inquietudine di un universo fatto di uomini e miti, diviso tra modernità e tradizione, tracciando uno stato d’animo e di coscienza fissato su quel labile confine fra un dentro e un fuori, tra una casa ideale e la diversità di un altrove esterno che spaventa e seduce, ma che soprattutto si placa attraverso una perfetta «trifonia», un trivium tra Sardegna, Provenza e Svezia, tra le melodie del Sud del mondo e le armonie tipiche del vecchio continente.

L’equilibrato apporto dei tre è molto evidente sia nei muovi componimenti che nella lettura degli standard. Tre personaggi dissimili tenutari di un differente patrimonio culturale che trovano un break even point in una sostanziale alleanza che favorisce le loro affinità creando simbiosi, pur utilizzando strumenti e modalità d’impiego non facili da conciliare. Parliamo di tre esecutori abituati alla ribalta, alla prima linea, tre frontmen i quali agiscono senza l’apporto di una retroguardia ritmica. Ciononostante la combine è perfetta: ognuno dei tre arricchisce la costruzione melodica, compensa e sostiene il compagno di viaggio, quando la partitura lo impone o lo richiede. La mediazione diventa la moneta di scambio, il feeling il collante del progetto, dove il concetto di mare travalica la simbologia divenendo una presenza costante, una fonte di ispirazione e un punto di partenza che porta i tre musicisti a congiungersi oltre i confini e i limiti convenzionali del jazz.

La title-track, «Mare Nostrum», un piccolo affresco di note sospese tra acqua, cielo e terra, è firmata da Lundgren, ma le composizioni originali sono equamente ripartite fra i tre che dialogano splendidamente in ogni singola traccia: «Principessa», a firma Galliano, è un altro quadro sonoro che scava nel profondo dell’anima con giochi di note che zampillano sulle placide acque di un mare rilassato e sornione. In «The Seagull» Fresu punta prevalentemente sul timbro caldo del flicorno ed il suono è impeccabile, così come quello del pianista che ne è l’autore. L’atmosfera nordica vagamente fiabesca si unisce al calore mediterraneo. «Valzer del Ritorno», scritta da Fresu, ha un tocco leggiadro, la narrazione è scorrevole, la temperatura delle emozioni è costante e priva di eccessi o fughe improvvise. Tra i classici risaltano maggiormente «Eu Nao Existo Sem Voce» di Jobim e De Morales, «Que Reste-t-il De Nos Amours di Charles Trenet e «Ma Mere L’Ode» di Maurice Ravel.

Alcuni brani inediti, come «Your Ahead» di Lundgren, «Sonia’s Nightmare» di Fresu e «Liberty Waltz» di Galliano, tracciano una mappa alla ricerca «geosofica» del senso, che misura la terra ed il mare con il ritmo e l’armonia, mischiando le carte nautiche della musica e tracciando i confini con i colori delle spezie sonore, usando l’arma dei ricordi e delle suggestioni per congiungersi con un «altro generalizzato» in un ecumenico afflato di note, alla ricerca di colui che abita sull’altra sponda di questo «nostro» mare. L’album emana un innato senso di cosmopolitismo musicale, dove coabitano vari moduli espressivi come il jazz, il tango argentino, la musica brasiliana e la tradizione popolare francese che trasformano il Mare Nostrum in un mare magnum di creatività. Il Poeta portoghese Fernando Pessoa ne potrebbero descrivere il significato con estrema semplicità: «Al di là del porto c’è solo l’ampio mare (…)Mare eterno assorto nel suo mormorare…»