// di Francesco Cataldo Verrina //
Nat Adderley – «Work Song», 1960
«Work Song», registrato a New York City, al Reeves Sound Studios il 25 e 27 gennaio 1960 e pubblicato nell’aprile dello stesso anno dalla Riverside, è la voce più ricercata e conosciuta nel catalogo di Nat Adderley, dove il cornettista condivide la prima linea con Wes Montgomery alla chitarra e Sam Jones al basso o violoncello, creando una sorta di cornet-cello-guitar front line con il supporto di Bobby Timmons al pianoforte, Percy Heath e Keter Betts al contrabbasso o al violoncello e Louis Hayes alla batteria.
Lontano dal più famoso ed «ingombrante» fratello, Cannonball Adderley, Nat tenta una strada tutta sua con una mistura di soul-jazz-blues ad alta gradazione emotiva, affidandosi soprattutto ai ricami chitarristici di Wes Montgomery come secondo solista. «Work Song» è una tempesta perfetta di suoni, dove tutti gli strumentisti coinvolti trovano quello stato di grazia e quella collegialità di intenti che riesce ad elevare il set al di sopra della media. Il prezzo della corsa è già assicurato dall’opener, ossia dalla title-track, «Work Song», firmato dal titolare dell’impresa, il suo più grande successo ad imperitura memoria, un tagliente funk-blues, dove la cornetta di Nat Adderley mostra il suo lato più brillante e lirico; «Pretty Memory» è una piccola giostra dai ritmi mutevoli; «Mean to Me» mette in evidenza il tocco delicato di Wes Montgomery; eccellente il lavoro sul basso di Sam Jones in «Fallout» e «My Heart Stood Still»; magnifici i riff di cornetta soulful e groove in «Sack of Woe» a firma Cannonball, nonché le graziose, quasi aristocratiche linee di Adderley su «Violets for your furs»; da manuale l’interazione del cornettista con Heath e Hayes su «Scrambled Eggs».
L’allineamento strumentale, come quello astrale, quasi un segno del destino, è divino in ogni frangente dell’album. In quattro tracce Adderley opta per un line-up ristretta: Timmons è assente in «My Heart Stood Still», presenti, invece, Keter Betts al violoncello e Jones al basso; in «Mean to Me» Nat si appoggia solo a Montgomery, Betts e Hayes; le due ballate «I’ve Got a Crush on You» e la già citata «Violets for Your Furs» sono interpretate dal trio Adderley-Montgomery-Jones. A prescindere dall’ambientazione e dal taglio dei brani, assai brevi, tutti i musicisti riescono ad incarnarsi nel progetto sviluppando, pienamente e con autorevole spazio di manovra individuale, le linee tracciate e indicate dal leader. «Work Song», che mostra davvero Nat Adderley sulla cruna del mondo, è un album solido, senza dispersione di tempo e di spazio, che scivola con estrema fluidità sul piano inclinato di un bop a tinte cangianti, con qualche punta hard, ma abbondantemente diluito da un mix di sangue soul-blues del gruppo R&B positivo.
Nat Adderley, – «Sayin’ Somethin’», 1966
Nat Adderley, spesso oscurato dal grasso fratellone, è stato un jazzista geniale e fortemente creativo. Forse meriterebbe una rivalutazione, ma basterebbe posizionarlo su un differente angolo visuale rispetto alla storia del jazz moderno. Il cornettista, oltre ad essere un sopraffino jazzista, era un afro-americano che amava tenere in considerazione tutte le manifestazioni musicali ed espressive della sua gente. Nella sua musica ci sono spesso molti riferimenti al soul, al latin-sound, al funk, senza mai tralasciare la matrice blues o tradire l’estetica del swing. «Sayin’ Somethin’», pubblicato dall’Atlantic nell’aprile del 1966, è un disco tridimensionale e polimorfico registrato in due differenti sessioni: il 20 dicembre del 1965 ed il 13 gennaio del 1966. Quattro tracce sono eseguite in quintetto con Joe Henderson al sax tenore, in tre è presente anche Herbie Hancock al piano; mentre in altri quattro brani Nat è sostenuto da un ensemble di undici elementi. Spiccano sulle vari ecomposizioni, un’accattivante versione di «Cantaloupe Island», «Hippodelphia» di Joe Zawinul e «Gospellete», composta dallo stesso Adderley e persino la cover di un successo di latin-pop come «Call Me» di Tony Hatch. Un disco da poter esporre con orgoglio in qualsiasi collezione di vinile. Il mio rammarico è solo quello di non avere l’edizione ufficiale, ma un’orribile ristampa alla carta stagnola della serie That’s Jazz (abominevole creatura!!!!)
