// di Guido Michelone //

Mentre in ambito pop, rock e persino classico abbondano i libri del genere, nel jazz ancora latita, prima di 365+1 giorni di jazz, un’iniziativa simile: una sorta di calendario dove, giorno per giorno, al posto del Santo da festeggiare si può leggere il commento di un celebre brano, di cui i tre curatori – vicini allo storico Piacenza Jazz Club, di cui il titolare redige qui la premessa –intelligentemente provvedono al reperimento per l’ascolto: il riferimento è pero non discografico ma ‘liquido’ con QR Code per Spotifly. Ma cos’è 365+1 giorni di jazz?: ilvolume risulta una guida all’ascolto, in cui Agosti, Borea, Casarola, in maniera fra loro abbastanza omogenea, provvedono ad analizzare gli aspetti musicali e musicologi con un linguaggio tecnico comprensibile a tutti (gli uomini di buona volontà).

Difficili appaiono fin da subito i criteri di selezione dei 366 (appunto con bisestile) brani, perché è arduo far coincidere ogni giorno con una data che spieghi la scelta: in prima battuta il pensiero va al giorno della creazione del pezzo medesimo (che nel jazz coincide con la registrazione discografica o con la data di pubblicazione); in seconda battuta all’antologizzare i 366 jazz tune maggiormente significativi dell’intero sound afroamericano. In entrambi i casi il calendario perfetto non esiste ovvero è impossibile da realizzarsi: se si vuole ottenere il giusto bilanciamento per coprire l’intera vicenda jazzistica nell’arco cronologico dalla prima incisione (2 febbraio 1917) a quelle recenti (in corrispondenza della stesura del volume) il rischio è di un eccessivo sbilanciamento verso jazzmen minori (con esclusioni clamorose di grandi maestri) o al contrario di aumentare eccessivamente il numero di opere di taluni musicisti a scapito di altri.

Per arrivare al necessario equilibrio i curatori del volume scelgono in linea di massima di rappresentare gli artisti migliori aumentandone il numero dei brani a seconda dell’importanza storica (più dell’artista che del brano); ma per far questo non riescono nell’intento di arrivare a 366 date di incisione/registrazione, ragion per cui optano per un compromesso, accogliendo nel calendario jazz anche ricorrenze di altro tipo, in primis le date di nascita degli stessi protagonisti. In tal modo ne fuoriesce un testo variegato e una guida autorevole, nella consapevolezza appunto che non si tratti dei 366 maggiori brani jazz in assoluto e che un terzo o forse più dei 275 titolari di questi brani siano i migliori jazzisti in assoluto. Il problema forse irrisolvibile è quello delle sovrapposizioni giornaliere, perché capita magari che nello stesso giorno, ad esempio un 6 febbraio o un 29 ottobre, in anni diversi vengano prodotti sette o undici capolavori, mentre lo scopo del libro, essendo calendario, è quello di citarne uno solo.

Ciò detto, senza far le pulci alle scelte dei tune (dove resta insindacabile il gusto personale anche quando si tratta di un esperto), è però doveroso constatare, in 365+1 giorni di jazz, il numero degli stessi in base al valore dei protagonisti: il vincitore, in quantità, è Duke Ellington con ben 12 scelte, comprensibili, data la lunga carriera e riconosciuto il poliedrico iter evolutivo; segue a 10 Miles Davis che in quanto a metamorfosi o rivoluzioni sonore è forse superiore al Duca; e poi si trovano John Coltrane con 8, Bill Evans e Thelonious Monk con 6, Louis Armstrong, Charles Mingus, Gerry Mulligan, Charlie Parker, Max Roach, Sonny Rollins con 5, Count Basie, Anthony Braxton, Eric Dolphy, Stan Getz, Benny Godman, Woody Herman, Bud Powell, Wayne Shorter, Lennie Tristano con 4. Certo, sono 20 grandissimi musicisti, ma per alcuni non si tratta dei primi venti, nel senso che, nel punteggio (se così si può chiamare) c’è sin troppa generosità, se si pensa che altri esponenti – forse assai più rilevanti sul piano storico di Woody Herman, Stan Getz, George Russell o degli stessi Eric Dolphy e Bill Evans – ottengono solo da un brano a tre: e si parla di Sidney Bechet, Bix Beiderbecke, Clifford Brown, Charlie Christian, Ornette Coleman, Roy Eldridge, Ella Fitzgerald, Dizzy Gillespie, Herbie Hancock, Coleman Hawkins, Earl Hines, Billie Holiday, Keith Jarrett, Stan Kenton, Lee Konitz, Wynton Marsalis, Art Tatum, Cecil Taylor, Fats Waller, Sarah Vaughan, John Zorn (citati in ordine alfabetico).

Non si capisce, poi, in 365+1 giorni di jazz, l’inserimento di una cantante gospel (Mahalia Jackson), un paroliere (Johnny Mercer), cinque tra bossanova e tropicalia (Regina, Gismondi, Pascoal, Jobim e La Sousa), un tanghero (Piazzolla), quattro compositori (Ravel, Burleigh, Gershwin e Gottschalk), tre rocker (Hendrix, Zappa e la Mitchell) ma due soli bluesmen (Patton e Jefferson, non Robert Johnson, Big Bill Broonzy, Muddy Waters, B.B. King). Qualche assenza poi è clamorosa a partire dai vibrafonisti (Lionel Hampton) agli hammonisti (Jimmy Smith) fino ai gruppi (Casa Loma Orchestra e gli Steps Ahead e i recenti US3, Bad Plus e Snarky Puppy o il Modern Jazz Quartet citato sotto Lewis), fino ad alcuni esponenti dell’hot jazz (Johnny Dodds, Red Allen, Bud Freeman), del blues jazzistico (Ma Rainey, Jimmy Rushing, Joe Turner), dello swing (Charlie Barnet, Nat King Cole, Harry James), del boogie (Meade Lux Lewis), del jump (Illinois Jacquet, Earl Bostic), del bebop (Billy Eckstine), dell’hard bop (Kenny Dorham).

Sulla stretta attualità, per 365+1 giorni di jazz, il discorso è lungo e forse la Storia con la S maiuscola non ha ancora consegnato grandi maestri se si guardano i jazzisti dai cinquant’anni in giù. Certo che nomi come David Binney, Kurt Elling, Fred Hersch, Vijay Iyer, Lionel Loueke, Gretchen Parlato, Jen Shyu, Tyshawn Sorey, Tierney Sutton, Craig Taborn, Mark Turner, Ben Wendel (sempre in senso alfabetico) siano tutti da verificare, benché almeno quattro di loro siano grandissimi artisti, da annoverarsi forse tra i giganti del primo quinto del XXI secolo. Sulle scelte europee e soprattutto italiane c’è un’ulteriore serie di patate bollenti o gatte da pelare: restano selezioni lacunose, giacché, insomma, inseriscono alcuni jazzmen minori e tralasciano tanti maggiori. Ma qui è meglio non fare nomi per evitare diatribe che scadrebbero sul personale. Ma in libri come questo forse sarebbe meglio puntare esclusivamente sugli americani, salvo poi dedicare un sequel (inteso come secondo volume) all’Europa (con o senza gli altri continenti) e magari un terzo all’Italia, la cui scena è artisticamente ricchissima. Detto questo, 365+1 giorni di jazz, come premesso, resta valida, utile, interessante soprattutto perché ogni singola analisi – tranne l’uso della prima persona singolare che sarebbe da vietare nella saggistica – rivela grandi esperti di jazz sotto il profilo musicale (un po’ meno in quello storico).

Cfr.: Agosti Monica, Borea Giuseppe ‘Jody’, Casarola Claudio, 365+1 giorni di jazz, Zecchini Editore, Varese 2022, pagine 390, euro 35,00.