// di Guido Michelone //
Esattamente un quarto di secolo fa Uri Caine, inizia a pubblicare su CD, per La Winter & Winter, una curiosa personalissima storia della musica, in cui per ogni disco rivisita – in chiave jazz, ma con innesti rap, pop, folk, klezmer, gospel, techno – le opere di grandi compositori del passato, dal barocco all’espressionismo; non va in ordine cronologico, ma segue le passioni e gli interessi del momento. Cominciando da Gustav Mahler/Uri Caine. Urlicht/Primal Light (1997), arriva a Uri Caine Ensemble Plays Mozart (2006). Nel 2008 questo immenso progetto trova un singolare abstract in The Classical Variations, con venti brani: nove scorrono via via da Diabelli Variations (2002), Love Fugue (2000), Gustav Mahler In Toblach (1999), Wagner a Venezia (1997), e i già citati Urlich e Play Mozart; gli altri undici sono inediti e riguardano i due autori forse più paradigmatici per Uri Caine: Bach da un lato, Mahler dall’altro, entrambi ritenuti di volta in volta la fine o l’inizio di vecchi o nuovi percorsi. Ci sono dunque per Bach nove bizzarre Variations e per Mahler l’iniziale Only Love Beauty. E – sorpresa! – un pezzo da Verdi: Il lamento di Desdemona. Per i contenuti sonori, per il trattamento rivoluzionario e per la scaletta assai fluida, The Classical Variations risulta un autentico capolavoro, anche se Uri Caine tende a minimizzare, come del resto fa verso se stesso, alla domanda finale, in quest’intervista del 2008, che solo ora vede la luce in versione integrale, mentre per motivi giornalistici
D.The Classical Variations, il tuo ‘nuovo’ album, appare più un nuovo lavoro che un’antologia con inediti: è giusto, secondo te?
R. Per me risulta una combinazione tra musica già pubblicata e al contempo fra brani che non erano stati inclusi in progetti precedenti come i primi tre minuti mahleriani, o tutti i brani dalle Goldberg Variations che non sono mai usciti nell’album di otto anni fa. E quindi, in questo senso, si tratta di un pout pourri di musica già nota al pubblico e di altra musica che invece è stata registrata quale parte di progetti antecedenti, ma che, per varie ragioni, non è mai uscita.
D. Che cosa ne pensi se ti dicessi che The Classical Variations mi sembra il compendio, il riassunto di tre-quattro secoli di musica, non solo classica,?
R. Non penso sia un lavoro così “grandioso”: in fondo è una selezione di diversi CD e di differenti nuove versioni che si possono dare a brani ormai storicizzati. Il CD e in genere quelli precedenti della Winter & Winter – a parte l’ultimo, ne ho fatti quindici in tutto a mio nome, di cui sette di classica – riflettono il mio interesse per la musica classica e l’utilizzo di questa come base per l’improvvisazione, anche se sembra che io faccia un altro tipo di musica.
D. C’è qualche legame simbolico nell’accostare musiche così diverse?
R. Il progetto riflette il mio interesse e quello dei molti musicisti che amano l’improvvisazione per diversi stili di musica, inclusa la musica classica, la pop music, l’elettronica, il folclore, perché in un certo senso è parte della nostra educazione. In fondo è ciò che siamo interessati ad ascoltare e a studiare che ci porta a combinare diverse tradizioni musicali. Questo è il modo in cui io e altri artisti che stimo facciamo musica oggi.
D. In questa sua ricerca e in queste tue improvvisazioni hai trovato qualcosa in comune tra autori cosi diversi tra loro come Bach, Mozart, Beethoven, Schumann, Wagner, uniti solo dal fatto che in Europa vengono chiamati musicisti ‘classici’?
R. Ho cominciato con il progetto sulle partiture di Gustav Mahler undici anni fa e da quel momento sono “passato attraverso” questi diversi autori. Tutto ciò riflette il mio interesse per la loro musica, sebbene da giovane volessi diventare un musicista jazz. Guardo alla loro musica come a uno dei tanti aspetti di ciò che mi interessa a livello sonoro: alcune volte può essere un pianista, altre l’opera di un compositore, altre ancora lavorare con l’elettronica, oppure utilizzare la tradizione della musica classica come una sorta di base per i gruppi e i musicisti che improvvisano. Partendo dal progetto su Mahler ho comunque cercato di fare qualcosa di diverso, una vera sfida per i solisti che improvvisano e che devono allo stesso tempo interpretare questa musica in modo individuale.
D. Ma cosa, secondo te, accomuna ad esempio Bach a Schumann?
R. A volte ho individuato molti aspetti simili tra questi compositori. Ma se dovessi parlare dei differenti approcci, ho cercato di prendere da ciascuno qualcosa di diverso. Per esempio le Goldberg Variations si basano ovviamente su Bach e sull’idea di variazione del tema… In altre parole, nel caso del CD su Bach, l’idea era quella di suonarlo improvvisando, ma variando il tema. Con Schumann invece era cercare in un certo senso di presentare i brani in modo pop, dando un diverso significato al cantato. Nel caso di Mahler ho fatto riferimento a un compositore che utilizzava stili diversi combinandolo con la musica folk e afro. Per quanto riguarda invece Wagner, l’idea era quella di leggerlo a Venezia, al Caffè Quadri, dove molti musicisti sono soliti ascoltare la sua musica e leggerlo in chiave moderna e aggiornata. Ogni variazione è un insieme diverso di segni attraverso cui esprimere le mie priorità.
D. Nelle tue scelte ci sono esclusivamente compositori tedeschi e austriaci, come mai non ti sei ancora confrontato con autori italiani come Vivaldi, Scarlatti oppure con gli operisti, a parte di quattro minuti del Desdemona’s Lament?
R. In realtà il mio prossimo progetto si baserà su una versione appunto dell’Otello verdiano, anche perché di voi Italiani adoro i compositori e il pubblico che è sempre così generoso e aperto con me.
D. Di tutti e diciotto gli album Winter e Winter quale ami di più? Non dirmi l’ultimo, sarebbe una risposta troppo diplomatica…
R. È difficile perché li associo a diverse situazioni. Alcuni, ad esempio, sono stati molto difficili da realizzare.
D. Difficili in che senso?
R. Anzitutto ti posso citare l’album The Goldberg Variations (2000) perché c’erano moltissimi musicisti e tanti contesti diversi. È sicuramente molto più difficile che lavorare solo con un pianoforte. Ma anche nel caso del progetto su Richard Wagner c’è poca improvvisazione e molto più lavoro tecnico e di arrangiamento di una grande orchestra. Del resto persino nei cd con i Bedrocks, che in apparenza ti possono sembrare rock, c’è tanta fatica e molto dispendio tecnico. Però mi diverte lavorare con formazioni diverse, sperimentare con le tradizioni musicali di differenti aree culturali o geografiche, benché in ogni caso, al di là dei risultati, per me si tratta sempre di utilizzare l’immaginazione.
D.Tu suoni spesso il Fender Rhodes per altri jazzisti di stile funk, ma cosa ti spinge verso questi altri generi, in apparenza appunto più leggeri e più facili?
R. Sono cresciuto a Philadelphia e lì era pieno di locali jazz, dove ho cominciato a suonare il piano elettrico seguendo lo stile di artisti all’organo Hammond come Jimmy McGriff. Amo il suono del piano elettrico, del Fender Rhodes, sebbene il mio insegnante mi dicesse di non suonarlo perché è del tutto diverso, se non inferiore al pianoforte classico, mentre per me è solo un diverso strumento, dove il suono è così funky, così percussivo. E poi mi diverte suonare generi diversi.
D. Il tuo è un approccio molto diverso dalla cosiddetta third stream music teorizzata (e praticata) da Gunther Schuller mezzo secolo anni fa, nonostante entrambi giochiate molto sull’unire o far convivere il jazz con la classica o la contemporanea. Come ti rapporti con lui? cosa ne pensi di di quei suoi primi esperimenti?
R. Penso che sia stato uno sviluppo naturale nella storia della musica del XX secolo. Schuller all’epoca era un grande musicista, musicologo e compositore classico estremamente interessato all’energia, alla spontaneità e all’improvvisazione del jazz. La sua rimane una fusione naturale che magari non soddisfa né i jazzisti amanti dell’improvvisazione, né i musicisti classici. Magari andando avanti, questa fusione sarà sempre più spontanea e naturale e verrà da entrambe le parti, ci sarà una maggiore apertura sia da parte dei giovani musicisti classici sia dai jazzisti medesimi. Se poi rifletti sul passato, i musicisti “tradizionali” sono sempre stati influenzati da altre tradizioni musicali e, sebbene sia difficile da accettare per molti, l’individualità e la sperimentazione sono fondamentali.
D. Per molti giornalisti in Italia tu vieni considerato esclusivamente un jazzista; per te resta una denominazione restrittiva oppure riesci ad accettarla?
R. Per me è estremamente divertente, perché mi vedo sempre come un bambino di dieci anni e ho sempre quella stessa sensazione di quando camminavo tra le strade di Philadelphia e mi emozionavo a sentire un piano jazz! Nel corso della mia vita mi sono reso conto che ci sono moltissime cose da imparare, tanto dalla musica classica quanto da quella contemporanea; molto modestamente, senza presunzione, mi definisco un musicista jazz perché seguo l’idea di combinare l’improvvisazione con strutture stabili. Quindi, alla fine, sicuramente preferisco senz’altro definirmi un ‘improvvisatore’ perché tutti i progetti classici che ho portato avanti hanno bisogno dell’improvvisazione musicale.
D. Sul tuo biglietto da visita cosa c’è scritto: compositore, musicista, jazzman.
R. Io preferisco musicista che è un termine che racchiude tutti gli altri perché cerco ogni giorno di imparare dagli altri generi. Non amo le definizioni, mi ritengo funzionale alle varie situazioni, come nella vita di tutti i giorni. Cerco di trovare un equilibrio e di lavorare con diversi stili musicali, cosa che implica in primo luogo l’essere flessibile.
R. Molti scrivono che sei un genio della musica. Anch’io condivido…
R. No, non sono un genio. E non mi sento un genio. Altri sono i veri geni della musica… E comunque ti ringrazio…
