// di Francesco Cataldo Verrina //
«ART Of The Messengers», un titolo che diventa immediatamente un manifesto programmatico ed una scelta di campo non agevole: il campo potrebbe essre minato da mille insidie. In primis perché ART, oltre a fare, metaforicamente, riferimento al concetto di arte tout-court, sta soprattutto per Art Bakley, il demiurgo, il deus ex-machina di una delle congregazioni bop più importanti della storia del jazz moderno, ossia The Jazz Messengers, in cui cambiavano le pedine, gli uomini e le menti venivano spostate o abbandonate al proprio destino, ma lo schema di gioco ed il modulo espressivo era sempre lo stesso; soprattutto le decisioni erano accentrante nelle mani del capo carismatico, Arthur Blakey, al secolo Art, depositario del marchio e padre padrone, il quale distribuiva pagelle, onori e gloria ai suoi sottoposti, sovente anche dosi di sostanze psicotrope, quale compenso per le loro prestazioni.
Per un batterista come Alex Semprevivo deve essere stato affascinante potersi commisurare con la musica di colui che, probabilmente, costituisce una delle sue principali influenze. Il vecchio Art Bakey, classe 1919, è stato uno dei punti di riferimento per tutti batteristi venuti prima e dopo la grande epopea dell’hard-bop. Ad onor del vero, Art Bakley & The Jazz Messengers rappresentano l’epitome stessa dell’hard-bop, così chiamato proprio in onore di un loro album del 1956. Negli anni precedenti, quando il direttore musicale dell’ensemble era Horace Silver, il termine più usato in merito alla musica dei Messengers era stato «Soul Jazz».
Al netto di ogni definizione, la prima difficoltà nello scontarsi con la storia dei Jazz Messengers consiste non solo nel trovarsi sul capo, come una spada di Damocle, lo spettro di Art Bakley, ma significa dover fare i conti con un fucina di talenti consegnati per merito agli annali della musica. Tutto ciò lo si può facilmente evincere dalle firme presenti nella track-list allestita da Alex Semprevivo: Duke Jordan, Lee Morgan, Wayne Shorter, Curtis Fuller, Bobby Timmons, Walter Davis Jr., J.J.Johnson. Nomi che corrispondono non solo ad eccelsi compositori ma soprattutto a sopraffini esecutori. Se ne deduce che in un album tributo ad Art e soci, non solo il batterista, ma qualunque trombonista, pianista, trombettista o sassofonista coinvolto nel progetto deve fare i conti con dei canoni stilistici scolpiti nella pietra ad imperitura memoria. Alex Semprevivo, però, con l’ausilio del pianista Angelo Mastronardi, riesce a superare le tante insidie riportate nella nostra analisi di SWOT, spostando il gioco di squadra su un terreno più congeniale ad una rilettura tutt’altro che calligrafa e karaokeistika dei vari assunti basilari dell’opera di Blakey. Dei Jazz Messangers c’è tutto, il loro concept originario non viene disintegrato, ma arricchito e spostato su un terreno più vicino all’idea di un jazz contemporaneo, dove l’essenza soul dell’hard-bop sembra spostata in un contesto di funk metropolitano grazie all’uso dei strumenti più moderni come il basso elettrico e il mini-moog, che conferiscono al progetto sonorità modello Blaxploitation, R&B e New-Funk.
«ART Of The Messengers» di Alex Semprevivo, pubblicato nel 2019 dall’etichetta GleAM Records contiene una doppia semantica, quelle originaria, salvaguardata nella sua forma estetica ed intatta nelle strutture ritmico-armoniche e quella del batterista salentino, che riesce ad infilarsi negli anfratti della sintassi dei Messangers esprimendo la propria forma mentis, attraverso un costrutto sonoro, che già al primo impatto appare tutt’altro che datato. Alex Semprevivo, alla batteria, è accompagnato e sostenuto dal Angelo Mastronardi pianoforte e arrangiamenti, Giovanni Chirico sax tenore, Andrea Perrone Tromba, Gaetano Carrozzo trombone, paolo Romano contrabbasso e basso elettrico, Giorgia Santoro flauto e Fabrizio Martina mini-moog. Un ottimo ensemble di «nuovi messaggeri», capaci di intercettare il suono di un’epoca, senza mai perdere il senso dell’orientamento e la bussola rispetto all’attualità del jazz, grazie ad un drive portentoso che cammina sui carboni ardenti di un hard-bop dilatato e rinverdito dalle ritmiche imprevedibili e tutt’altro che di maniera del leader-band; un viaggio a pie’ sospinto senza pause, senza respiro, senza esitazione alcuna: nel disco c’è aria ferma.
L’opener «No Problem», composizione scritta da Duke Jordan, potente e giubilante, è un’incursione nei territori di funk moderno, pur mantenendo la complessità orchestrale di un hard-bop da music-hall, ricco di sfumature ritmiche e cambi di passo. «Calling Me Miss Khadijag» di Lee Morgan, è un inno alla gioia con groove flessuoso e dall’incedere latineggiante dove i tre fiati, a volte all’unisono altre in assolo, disegnano movenze arcuate e facili melodie, arricchite dalle sonorità funkified del mini-moog. «Free For All», a firma Shorter, pur mantenendo il tipico movimento trionfalistico dei Messangers, s’inabissa attraverso un serpentino assolo in libertà vigilata del sax, a meta strada tra Shorter e Coltrane, spezzando gli astringenti vincoli armonici, mentre il piano risposte con un disegno melodico quasi speculare, ma deformato a sua immagine e somiglianza. L’alternanza dei fiati all’unisono e l’incessante lavoro della retroguardia non concedono attimi di pausa. Non a caso, «Sortie» di Curtis Fuller inizia di soppiatto con una muscolare introduzione di batteria, per poi rilanciare con un setoso andamento dei fiati che sembrano saltellare su un ritmica al piccolo trotto che ricorda vagamente i classici della Motown e talune atmosfere esotiche alla Gillespie. Nella seconda parte, il tempo diventa più regolare e poi nuovamente più accidentato, mentre il pianoforte spalma sulle orecchie del fruitore tutta la sua magnificenza; dal canto loro i fiati continuano troneggiare rispettando in pieno l’estetica dei Messengers. «So Tired», a firma Bobby Timmons, viene in parte stravolto dall’inserimento del flauto che riporta subito alla mente il free-bop dilatato e progressivo di certi dischi Eric Dolphy. «Jodie» di Walter Davis Jr. sfugge ad ogni trattamento eccessivamente manipolatorio, ma viene rinfrescata ed avvicinata ad un modulo più trasversale e post bob, specie dal gioco pianistico e dall’angolatura del sax.
«One By One» è un brano assai breve, non arriva a quattro minuti, ma come dicevano gli antichi: «in piccol vaso, prezioso unguento». Scritto da Wayne Shorter con il suo metodo introspettivo, ne conserva il mood quasi esoterico, dove ad ogni cambio di passo sembra che debba accadere qualcosa di sconvolgente. L’effetto suspance, tipico delle composizioni shorteriane viene arricchito da un’originale lettura da parte dei solisti dell’ensemble. «We Dot» di J.J.Johnson è il componimento dalla sintomatologia più retrò, dove il battito tipico dello swing, viene trapiantato in un humus decisamente più avventuroso ed R&B. In chiusura, la ripresa di «No Problem», restituita la mondo degli uomini con un lisergico remix space-funk alla Norman Whitefield, tanto che sarebbe stata perfetta in un contesto soul-funk anni Settanta. Nel complesso «ART Of The Messangers» di Alex Semprevivo, non solo rispetta la conformazione modulare della premiata ditta Blakey senza stravolgerne il senso per eccesso di diversità, ma ne attualizza il significato e, forse, lo rende accessibile perfino alle generazioni Web 4.0.
