// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
I, too, sing America. I am the darker brother. They send me to eat in the kitchen. When company comes, But I laugh, And eat well, And grow strong. / Tomorrow, I’ll sit at the table When company comes. Nobody’ll dare. Say to me, “Eat in the kitchen,” Then. / Besides, They’ll see how beautiful I am. And be ashamed – I, too, am America. (Langston Hughes)
Per la personalità di Freddie Hubbard valeva e vale la definizione inglese di «larger than life», l’unica forse in grado di accogliere interamente il talento drammatico, il senso lirico, la showmanship, l’ego, la retorica declamatoria, l’esuberanza e le manifestazioni di un virtuosismo ammiccantemente fallico di uno fra i più notevoli solisti nella storia della musica improvvisata africano-americana.
Pure, proprio quelle che si potrebbero facilmente definire le doti più apprezzabili di Hubbard sono le stesse ad averne fatto un sottovalutato, nonostante il suo contributo alla storia del post-bop rappresenti un lascito ben più che apprezzabile: l’esibizione, talvolta guascona, dei propri mezzi si è spesso sovrapposta a un pensiero musicale non meno sofisticato di quello di artisti a lui preferiti per complessità e modernità come Lee Morgan, Booker Little, Kenny Dorham o, successivamente, Woody Shaw. Hubbard è stato l’epitome dell’hard bop (per quanto egli rifiutasse l’etichetta: Vogliono sempre vendermi come un hard bopper) più «virile» e diretto, sennonché la sua opera ha non di rado mostrato di voler andare verso una diversa direzione: il bop ortodosso sembrava costringerlo in un contesto in fondo disagevole, persino ristretto.
Forse l’unico trombettista a possedere tutta la liquida qualità di un sassofonista, egli poteva vantare un’evidente naturalezza nel tradurre in strutture musicali un pensiero fortemente radicato nel Canone africano-americano: è plausibile ch’egli abbia nutrito l’idea, forse l’illusione (viste le critiche spesso ingenerose che hanno accompagnato molti fra i suoi principali lavori discografici a partire dagli anni Settanta), di tradurre nella concretezza dei suoni quel concetto di Jazz objectifies America cui spesso si riferisce Wynton Marsalis.
Artista dalla sensibilità politica forte quanto poco nota, Hubbard ha cercato di superare i molti ghetti, per quanto estremamente creativi, in cui veniva rinchiusa la tradizione musicale africano-americana: cresciuto in un’epoca in cui le speranze cedevano velocemente il passo alla delusione, maturato in un contesto in cui la tradizione musicale africano-americana cercava di bilanciare l’attrazione intellettuale della modernità con il richiamo popolare dei talkative ancestors (come li definisce Farah Jasmine Griffin), Hubbard illustra a suo modo un’altra pagina della nutrita narrativa che documenta lo scontro fra creatività africana-americana ed establishment: l’emergere ulteriore, insomma, di un individuo che, attraverso l’arte, trasforma l’avversità in creazione estetica.
Per dirla con Albert Murray, Hubbard sottolinea in modo estroverso il carattere inescapably mulatto della cultura americana, una tendenza che permea pressoché tutta la parte più significativa delle sue realizzazioni musicali, per la Blue Note come per la CTI. Hubbard mostra sin dagli esordi di voler essere «popolare», di volersi ergere a simbolo di una «negritude» prorompente di cui è capace di esplorare la complessità, rendendola al contempo «appetibile» (e invidiabile) sia al pubblico bianco che, soprattutto, agli africano-americani di tutti i ceti.
Che egli, d’altronde, non fosse semplicemente un eccellente interprete della tradizione ma un artista capace di allinearsi a linguaggi innovativi, è provato dalla sua partecipazione ad alcuni capisaldi della musica improvvisata: Ascension, Free Jazz, Out to Lunch!, Maiden Voyage e The Blues and The Abstract Truth. Ipotizzare che il suo penchant per un’estetica più «dialogante», venata di molteplici elementi tratti dalla tradizione africana-americana più popolare (così come esplicata dalla sua produzione per case discografiche come Atlantic, CTI e Columbia), sia stata solo una tappa maldestra di un percorso brutalmente commerciale, è travisare l’operato di un artista spesso in bilico tra auto-coscienza e naiveté, ma non così deprecabilmente categorizzabile.
Può apparire curioso che uno strumentista così muscolare in apparenza si sia iniziato all’improvvisazione ascoltando i dischi del quartetto di Gerry Mulligan e Chet Baker: È stato il primo jazz che ho ascoltato… mandavo a prendere gli spartiti, quelli con Mulligan (Ira Gitler). In realtà, soprattutto nelle ballad, Hubbard ha per tutta la carriera dimostrato una sensibilità squisita, cui non sono stati certamente estranei modelli eterodossi, nonché un apprendistato basato anche sullo studio del mellophone e del corno francese. L’impatto di Dizzy Gillespie e di Clifford Brown (Mi lasciò stupefatto: mostrava una tale profondità. (…)Il suo suono era brillante e allo stesso tempo ampio; possedeva un tono profondo e caldo. Per molto tempo ho provato a suonare come Clifford) è però il più evidente in un approccio che con la maturità doveva assumere una forte originalità: Fu Dizzy il musicista in cui cercai di «entrare» per primo, lo studiai per un po’, solo sui dischi.
Dizzy era un mostro. Chi può mai suonare così? Non riuscivo infatti ad attaccarmi così tanto al suo stile. Voglio dire, potevo ascoltarlo e apprezzarlo, ma il modo in cui suonava era unico; non si poteva nemmeno provare a suonare così. Poi ascoltai Miles e pensai che, be’, volevo suonare con più intensità di lui. Anche Miles aveva un modo di suonare molto individuale, che faceva parte del suo stile di vita; quindi non aveva senso imitarlo. Quindi ascoltai Clifford Brown. A quel tempo studiavo la tromba al Jordan Conservatory e le improvvisazioni di Clifford racchiudevano dettagli tecnici che avevo già studiato sui libri. Pensai allora che poteva essere un buon inizio per me e studiai Clifford per circa tre anni. È per questo che venni a New York, perché in un certo senso suonavo come Clifford. Perché Clifford era appena morto e Lee Morgan e Booker Little, all’epoca, suonavano molto come Clifford.
Eravamo tre giovani musicisti che si trasferivano a New York quasi nello stesso momento. Bene, Lee era lì per primo; poi arrivai io, poi arrivò Booker Little. E oggi sono tutti e due morti. Ma fu molto bello: tre musicisti della stessa età, che scorrazzavano per New York, si ascoltavano, suonavano e imparavano gli uni dagli altri. Ma era sempre una sfida: «Ah, Lee Morgan viene a suonare. È meglio che ti prepari» — e dovevi esercitarti. Tutto questo ci teneva sempre sulla corda. Ma non era una cosa competitiva; era solo che avevamo tutti la stessa età e tutti noi amavamo Clifford Brown (Les Tomkins).
Un’iniziale esperienza con i fratelli Montgomery (The Montgomery Brothers And Five Others, Pacific Jazz 1240, 30 dicembre 1957), la creazione di un complesso nella natia Indianapolis, The Jazz Contemporaries, con James Spaulding e Larry Ridley, il trasferimento, nel 1958, a New York (dove divide inizialmente una stanza con Slide Hampton, poi con Eric Dolphy) rappresentano i primi passi di una carriera -iniziata come allievo di Max Woodbury, prima tromba della Indianapolis Symphony Orchestra e proseguita presso il Jordan Conservatory of Music alla Butler University- che, pur tra le molte e prevedibili difficoltà, prende un consistente avvio: «Così eccomi qui, che arrivo a New York dalla campagna; c’erano anche musicisti come Donald Byrd, Bill Hardman, Kenny Dorham. Un unico pensiero: «Come farò a farcela?» Perché il jazz non è così popolare, non lo è mai stato, in termini di guadagni e di popolarità. È come un tesoro nascosto, o qualcosa del genere.
Mi ci vollero due anni per sfondare davvero. Arrivai a New York con un amico, con quaranta dollari in tasca e la valigia. All’inizio fu spaventoso, provenendo da una piccola città di corse automobilistiche come Indianapolis; fu un completo cambiamento di atmosfera. Andai a vivere nel Bronx per i primi sei mesi: non avevo mai visto una metropolitana in vita mia. Rimasi in casa un mese; non scendevo in strada, perché avevo visto persone accoltellarsi, spararsi, uccidersi a vicenda. Non potevo crederci. Venivo da una graziosa cittadina, dove dopo il tramonto si stava a chiacchierare all’aperto, in cortile e non si chiudeva a chiave la porta di casa. Quando finalmente decisi di uscire, andai a partecipare a una jam session ad Harlem, e c’erano così tanti musicisti che aspettavano di sedersi che mi ci volle un altro mese per essere ascoltato. E così erano passati due mesi.
Ero abituato a suonare regolarmente a Indianapolis: Jimmy Spaulding e io avevamo un gruppo chiamato Jazz Contemporaries, lavoravamo quattro giorni alla settimana e guadagnavamo circa ottantacinque dollari alla settimana, che all’epoca era una cifra decente. Ma stare a New York per due mesi, non avere soldi e non avere la possibilità di suonare il mio strumento, era davvero una delusione. Quindi, dato che assomigliavo a Donald Byrd, mi diedero una tregua e mi lasciarono suonare. E iniziai a incontrare i musicisti che stavano facendo carriera, come Quincy e Art Blakey. È stato piuttosto emozionante. Ho trascorso tredici anni a New York. Ma durante quei due anni prima di registrar dovetti fare molte altre cose: lavori commerciali, balli, spettacoli.
Mangiai pesce e patatine per un anno ad Harlem: cinquanta centesimi, un pasto. E vivevo in un abituro da non credere. Per fortuna mi hanno aiutarono a superare la crisi: a un certo punto stavo per arrendermi e tornare a casa. Quando arrivai a New York, ebbi parecchie disillusioni. Non era quello che mi aspettavo. Mi aspettavo che tutti quei musicisti che avevano fatto degli album fossero persone molto rispettate, che avessero belle macchine, belle case, conti in banca… che fossero ben sistemati. Guardavi un album e dicevi: «Wow, sta andando alla grande. È in giro per il mondo e tutto il resto…» E invece erano proprio loro a chiedermi soldi. Tipo: «Prestami un dollaro». E io dentro di me dicevo: «Aspetta un attimo. Questo è irreale». Voglio dire, un uomo che idolatravo. Dovetti trasferirmi a Brooklyn. Non potevo farcela a New York City, così andai in periferia. arrivai lì e creai il mio gruppo, rimasi a Brooklyn per un anno e mezzo; dopodiché le cose presero a muoversi. Partecipai a spettacoli televisivi, a pubblicità. Poi incontrai Quincy [Jones] ed egli mi fece partecipare a un sacco di cose. Perché lui suonava la tromba, vedi. (Les Tomkins)
Affascinato anche dal suono e dall’estetica davisiana, Hubbard incontra nel 1958 John Coltrane (Mi disse: «Perché non vieni da me e proviamo a fare un po’ di pratica insieme?». Sono quasi impazzito. Voglio dire, ecco un ragazzo di 20 anni che si esercitava con John Coltrane. Mi aiutò molto e facemmo diversi lavori insieme), con cui si esercita a lungo, cercando di tradurre alla tromba l’innovativo approccio strumentale del sassofonista (Mi esercito sempre con sassofonisti. Mi accorgo che quando si frequentano trombettisti si entra in competizione: chi riesce a suonare più forte e chi ha gli acuti migliori. Dopo che hai sviluppato il tuo stile, non vuoi entrare in questa roba, ti accorgi che non ha senso. Non potevo suonare «Il volo del calabrone» come Doc Severinsen.
Non potevo suonare «pirotecnico» come Dizzy. Non potevo suonare elegantemente come Miles. Così cercai di trovare qualcosa per me stesso da tutti loro, e mi avviai da quel punto in poi). In altra occasione, Hubbard era ancora più chiaro: In quel periodo stavo cambiando il mio stile alla tromba. Cercavo di suonarla come un sassofono. Invece di dire «Dah, dah, du, du, di, di, di, do», dicevo «Diddly, do, du, do, dah, do, wham, bam, be», suonando più intervalli. E cercavo di farli come lunghe serie di glissando, come «run, da, dun, dun, da, lun, da, da, da, da, da, da, da, da», e i trombettisti questo allora non lo facevano.
Egli partecipa alle sedute discografiche che daranno vita agli album coltraniani The Believer (10 gennaio e 26 dicembre 1958, pubblicato dalla Prestige nel 1963, PRLP 7292), Bahia (26 dicembre 1958, Prestige PR 7353) e Stardust (11 luglio e 26 dicembre 1958, pubblicato dalla Prestige a nome del trombettista e flicornista Wilbur Harden, PRLP 7268), esibendosi nella realizzazione di Do I Love You Because You’re Beautiful?, Something I Dreamed Last Night e Then I’ll Be Tired of You.
Il rapporto con Coltrane si consoliderà, portando ad una serie di incisioni storiche: Hubbard sarà presente, fra incisioni, ristampe e riprese, in The Coltrane Legacy(To Her Ladyship, 25 maggio 1961, Atlantic SD 1553), Africa Brass (Greensleeves, 23 maggio 1961, Impulse A6), Africa Brass vol. II (Song Of The Underground Railroad e Greensleeves/alt. take, 23 maggio 1961, Impulse AS 9273), The Mastery Of John Coltrane, Vol. 4 – Trane’s Modes (The Damned Don’t Cry e Africa/1st version, 23 maggio 1961, Impulse IZ 9361/2), Olé (25 maggio 1961, Atlantic LP 1373), Ascension (ed. 1 & 2, 28 giugno 1965, Impulse A 95 e AS 95).
La veloce maturazione del trombettista è testimoniata da alcune incisioni come sideman: Go, a nome del contrabbassista Paul Chambers (2-3 febbraio, 1959, Vee Jay 1014, con Cannonball Adderley, Wynton Kelly, Philly Joe Jones o Jimmy Cobb), soprattutto Slide! Slide Hampton and His Horn of Plenty (1959, Strand SLS 1006, ristampa Fresh Sound FSR-CD 206) e Sister Salvation (15 febbraio 1960, Atlantic LP 1339, ristampa Collectables COL-CD-6173) ambedue a nome del trombonista Slide Hampton, i cui ottimi arrangiamenti esaltano un gruppo di strumentisti in cui Hubbard affianca artisti come George Coleman, Booker Little, Pete LaRoca, Bill Barber, Kiane Zawadi, Richard Williams e altri.
Hubbard, appena ventiduenne, offre un eccellente contributo il 1° di aprile 1960 in Outward Bound (New Jazz NJLP 8236) a nome di Eric Dolphy, artista con cui il trombettista collaborerà in altre incisioni, occasioni per dimostrare la versatilità non solo di un eccellente strumentista ma anche di un intuito fuori del comune nel decifrare le potenzialità espressive di linguaggi all’epoca affatto sperimentali: Twins (21 dicembre 1960, Atlantic SD 1588) e Free Jazz (21 dicembre 1960, Atlantic LP 1364) di Ornette Coleman, The Blues And The Abstract Truth (23 febbraio 1961, Impulse A 5) di Oliver Nelson, Africa Brass e Olé di John Coltrane, The Body and the Soul (8 e 11 marzo, 2 maggio 1963, Impulse A 38) dello stesso Hubbard e, finalmente, Out to Lunch! (25 febbraio 1964, Blue Note BLP 4163), una fra le prove più alte dell’arte del trombettista, che nell’estetica dolphyana mostra di trovarsi completamente a suo agio, piegando tecnica, intelligenza armonica e capacità ritmica ai dettami angolari di un approccio innovativo, contribuendo a realizzare una delle pagine più significative del post-bop.
Come ha scritto Dave Douglas: «La gioia e la libertà del suo modo di suonare derivavano in parte da questa completa padronanza dello strumento. Sembrava fare tutto sempre senza sforzo. Nella gamma degli acuti il suo controllo dell’aria era così sublime che le sue linee a volte sfidavano le leggi della fisica e dell’armonia, risolvendosi in modi peculiare proprio a causa del totale dominio dello strumento. Freddie coglieva l’opportunità di quelle diteggiature alternate per entrare e uscire da idee di accordi e scale cromatiche. Il suo attacco era sempre preciso e le sue linee inquiete e sfreccianti scorrevano come l’acqua in un canale».


Poco tempo prima di incidere il primo album a suo nome Hubbard è di nuovo in sala di incisione: il 2 aprile 1960 registra quattro brani pubblicati a nome del batterista Charli Persip (Charlie Persip And The Jazz Statesmen, Bethlehem BCP 6046). Il 19 giugno dello stesso anno, l’esordio da leader, fulminante per un artista così giovane: Open Sesame, per la Blue Note, a capo di un gruppo che comprende il sottovalutato tenorista Tina Brooks (autore di due brani, Open Sesame e Gypsy Blue), il pianista McCoy Tyner (alle soglie del sodalizio con John Coltrane), il contrabbassista Sam Jones (allora il musicista più noto del gruppo) e un altro sottovalutato, il batterista Clifford Jarvis. L’attacco netto e potente, la sonorità spavaldamente squillante, i mezzi tecnici notevolissimi sono tutti in risalto, ma -in But Beautiful– anche la morbidezza di accenti e l’eloquio raffinato quanto espressivo che contraddistingueranno l’interprete di ballad.
Circa due mesi dopo Hubbard affianca Tina Brooks (con Duke Jordan, Sam Jones e Art Taylor) in un’incisione a nome del sassofonista (True Blue, Blue Note BLP 4041), un partner ideale per il trombettista, cui lo lega lo stesso penchant per un hard bop complesso, dalle venature funky e latinoamericane, e illuminato da improvvisi, intensi squarci di lirismo. Nel frattempo, la sua carriera, che aveva conosciuto le già citate collaborazioni con Wayne Shorter, Philly Joe Jones, John Coltrane, Sonny Rollins (una tournée di due mesi circa, nel 1959) si arricchisce dell’incontro con J. J. Johnson, con cui Hubbard incide l’eccellente J. J. Inc., un album per la Columbia (CS 8406) che lo vede affiancarsi anche a Clifford Jordan, Cedar Walton, Arthur Harper e Albert “Tootie” Heath, e che rappresenta (grazie anche al talento compositivo di Johnson) un’altra tappa nella messa a punto di un’estetica hard bop di alto livello tecnico e di grande versatilità espressiva.
Sempre più richiesto, Hubbard partecipa ad un’altra seduta discografica, il 19 settembre 1960, a nome del tenorista Walter Benton, con Wynton Kelly, Paul Chambers, Jimmy Cobb (Out of This World, Jazzland JLP 928), prima di realizzare un secondo album come leader. Goin’ Up (6 novembre 1960, Blue Note BST 84056) vanta una line up come sempre di notevole livello, con Hank Mobley (che Hubbard affiancherà, una settimana dopo, in Roll Call, Blue Note BN 4058) al sassofono tenore, McCoy Tyner al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Philly Joe Jones alla batteria: in pochi mesi il trombettista appare ulteriormente maturato, in certi momenti (si ascolti The Changing Scene) sembra persino stupefatto, colto da timor panico di fronte alla ricchezza straripante dei propri mezzi tecnici e delle idee che paiono accavallarsi tumultuosamente, ansiose di esprimersi.
Da poche settimane il trombettista fa parte dell’orchestra di Quincy Jones, con cui presto si esibirà in Europa, in uno sfortunato spettacolo musicale di Harold Arlen intitolato Free and Easy. Con i diciotto musicisti, fra americani ed europei, dopo la chiusura dello spettacolo nel febbraio 1961, Jones compie una lunga tournée europea (in parte testimoniata da un’incisione della Ancha, Quincy Jones Free and Easy, Live in Sweden, 1960 e da una della Mercury, The Great Wide World of Quincy Jones: Live!, realizzata il 10 marzo 1961), che si chiude negli Stati Uniti.
A marzo Hubbard abbandona, dopo avere collaborato anche con il pianista accademico Friedrich Gulda, con cui nel 1965 inciderà Music for 4 Soloists and Band, a fianco di J. J. Johnson, Sahib Shihab, Ron Carter, Mel Lewis, Kenny Wheeler, Rolf Kühn e altri ancora. Nel corso di questo periodo prosegue un’attività discografica cospicua, di rilevanza innegabile; con la Blue Note partecipa a più incisioni: la già citata Roll Call di Hank Mobley (13 novembre, 1960, BN 4058), Undercurrent di Kenny Drew (11 dicembre 1960, BN 4059), Bluesnik di Jackie McLean (8 gennaio 1961, BN 4067), tutte registrazioni di notevole riuscita.
E’ al di fuori della Blue Note, però, che offre un saggio notevole della sua bravura, partecipando a realizzazioni come Uhuru Afrika di Randy Weston (17 e 18 novembre 1960, Roulette SR 65001), Boss of Soul Stream Trombone di Curtis Fuller (dicembre 1960, Warwick 2038, in cui sono proprio gli assolo di Hubbard a rappresentare il meglio di un’incisione altrimenti trascurabile) ma, soprattutto, Free Jazz di Ornette Coleman e, ancora di più, The Blues and The Abstract Truth di Oliver Nelson, in cui gli esuberanti, tecnicamente superbi contributi del trombettista -fra i suoi più intelligenti e affascinanti, in bilico fra angolosa euforia e straordinaria bellezza melodica- vengono sfruttati al meglio dai disciplinati, sofisticati e inventivi arrangiamenti di Nelson, che non di rado giocano, in un susseguirsi e ammontarsi di tensioni, anche sui contrasti fra le diverse sonorità e i diversi approcci dello stesso Hubbard (da notare il suo uso del vibrato) e di Eric Dolphy.
Il 1961 è un anno determinante per la carriera e soprattutto per la maturazione di Hubbard: in quell’anno egli collabora ad alcune fondamentali creazioni di John Coltrane, realizza altre incisioni (con Dexter Gordon, Jimmy Heath, Quincy Jones, Wayne Shorter, Duke Pearson), continua la propria attività discografica come leader (Hub Cup, 9 aprile 1961, Blue Note BN 4073), firma un vero e proprio capolavoro a suo nome (Ready for Freddie, 21 agosto 1961, Blue Note BN 4085), soprattutto sostituisce Lee Morgan nei Jazz Messengers di Art Blakey, gruppo con cui, fino al 1964, realizza alcune eccellenti incisioni (Mosaic, Buhaina’s Delight, Free For All, Three Blind Mice, tutte per la Blue Note, nonché Caravan, Ugetsu, Golden Boy, Kyoto, Soul Finger) e nel quale allaccia un significativo rapporto creativo con Wayne Shorter (già anticipato con la sua partecipazione all’album Wayning Moments, 2 e 6 novembre 1961, Vee Jay 3029) e Curtis Fuller.
Già in Hub Cup emerge non solo lo strumentista virtuoso, in grado di primeggiare per facilità e ricchezza di idee rispetto a musicisti di provato valore come il sassofonista Jimmy Heath e il trombonista Julian Priester, ma pure un compositore tutt’altro che banale (quattro delle sei composizioni sono a sua firma, oltre a Plexus, la prima composizione del pianista Cedar Walton a essere incisa, e Cry Me Not, a firma di Randy Weston), un tratto ancora più evidente in Ready for Freddie, lavoro in cui Hubbard firma pagine di grande interesse come Arietis, Crisis, Byrdlike (dedicata al trombettista Donald Byrd ed in cui Hubbard crea un’inventiva successione di diciannove chorus), che si rivelano oltretutto ingegnosamente concepite per offrire linfa ai diversi solisti, in questo caso McCoy Tyner e Wayne Shorter, oltre a Bernard McKinney, Art Davis e Elvin Jones.
Dal 1961 Hubbard si afferma, viste le alterne vicende di Lee Morgan e la morte di Booker Little, come il trombettista di riferimento dello hard bop, voce assai personale in grado di elaborare con originalità la (solo) apparente semplicità dell’approccio modale all’improvvisazione delineato da autori come Miles Davis e John Coltrane. Significativamente, è proprio a Coltrane, dunque a un sassofonista, che Hubbard fa specifico riferimento nell’articolare la propria estetica improvvisativa: Per quello che posso esprimere a parole, la strada che mi interessa di più è quella di Coltrane. Alludo ai diversi modi di interpretare i «changes» in modo da ottenere un più vario gioco di colori capace di definire le emozioni che tali colori rivelano. (Nat Hentoff).
Nel 1962, nelle pause fra le varie tournée con Art Blakey, Hubbard afferma ulteriormente la sua personalità: incide con Jimmy Heath (Triple Threat, Riverside RLP 9400), Benny Golson (Pop+Jazz=Swing, Audio Fidelity 3P-AFSD 5978), Slide Hampton (Drum Suite, Epic BA 17030), Curtis Fuller (Cabin in The Sky, Impulse! AS-22), soprattutto partecipa a lavori estremamente significativi come Takin’ Off (Blue Note ST-84109) di Herbie Hancock -al debutto come leader- e Interplay (Riverside, RS 9445) di Bill Evans, una delle pagine più brillantemente boppistiche del pianista ed in cui Hubbard si dimostra in grado di dominare una naturale irruenza, esibendo uno spiccato talento poetico di cui sottolinea il lirismo con un uso particolarmente espressivo della sordina.
Per la Blue Note firma incisioni come Hub-Tones (10 ottobre 1962, BN4115) e Here To Stay (27 dicembre 1962, BN4135, pubblicato molti anni dopo, nel 1986). In Hub-Tones (in cui brillano anche James Spaulding, Herbie Hancock, Reggie Workman e Clifford Jarvis) è sempre più evidente una maestria compositiva e timbrica (si noti ancora l’uso della sordina in Prophet Jennings) cui le abituali formulazioni dello hard bop risultano costrittive e disagevoli: lo provano pagine come Hub Tones e Lament for Booker; così come Here To Stay (con Wayne Shorter, Cedar Walton, Reggie Workman, Philly Joe Jones e con il contributo compositivo -in Assunta e Father and Son– di un sottovalutato come Cal Massey), lavoro in cui, oltre alle capacità autoriali di Hubbard (Philly Mignon, Nostrand and Fulton) emerge con ancora più nettezza la sua maestria interpretativa nelle ballad, l’intensità poetica di un lirismo capace d’introspezione e costantemente legato al blues, come prova un’interessante lettura di Body and Soul.

