// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

Profondamente scettici nei confronti dell’industria musicale di proprietà dei bianchi e delle forme ibride e commercializzate di musica popolare nera come il soul, gli attivisti del BAM consideravano musicisti d’avanguardia come John Coltrane, Marion Brown, Max Roach, Ornette Coleman e Archie Shepp come eroi della liberazione dei neri dai valori bianchi.

Tuttavia, c’era un problema importante: il jazz, che si presumeva rivoluzionario, era consumato principalmente dagli intellettuali bianchi e non aveva un impatto considerevole sulla comunità africano-americana, dove la popolarità della soul music era ineguagliata da qualsiasi altro genere musicale nero. Riconoscendo l’elitarismo del jazz, Amiri Baraka e altri sostenitori del BAM speravano che la musica soul diventasse una voce per la rivoluzione nera.

Sebbene gli sforzi dei nazionalisti culturali di arruolare star del soul come supporto rimasero alquanto inefficaci, l’emergere di artisti radicali di spoken word come Gil Scott-Heron, The Last Poets e The Watts Prophets testimoniò l’intervento del BAM nella musica popolare aricano-americana.

La scelta di Hubbard di esprimersi attraverso l’ampio ventaglio espressivo della vernacolarità, l’enfasi fisica espressa sia nella spavalderia tecnica che nella postura fisica aggressiva, riflettevano marcatamente una posizione ben più politica che banalmente commerciale. Essa aveva trovato la sua sintesi nel 1968 nelle parole di James Brown: Say It Loud (I’m Black and I’m Proud), che a loro volta echeggiavano Black Power, il discorso tenuto da Stokely Carmichael nell’ottobre del 1966 alla University of California, a Berkeley: I bianchi associano il Potere Nero alla violenza a causa della loro incapacità di affrontare il nero. Se avessimo detto “potere negro” nessuno si sarebbe spaventato. Tutti lo sosterrebbero. Se avessimo detto “potere per le persone di colore”, tutti sarebbero stati d’accordo, ma è la parola “nero” che infastidisce la gente in questo Paese, e questo è un problema loro, non mio. Ed è a questo progressismo africano-americano che era associabile l’idea di virilità che Hubbard manifestava nella sua caratteristica fisicità performativa. Erano trascorsi pochi anni dalla pubblicazione dell’influente testo di Norman Mailer The White Negro (1957), in cui si celebrava la superiorità sessuale dei maschi neri, e meno anni ancora (1968) separavano dalla pubblicazione di un discusso testo come Soul on Ice di Eldridge Cleaver, in cui si equiparava la negritudine (blackness) alla virilità eterosessuale, sminuendo così l’omosessualità africana-americana in generale e attaccando la narrativa gay di Giovanni’s Room di James Baldwin, che Cleaver descriveva come un “desiderio di morte razziale”, tipico -a suo dire- di un’omosessualità nera. Nelle parole dello stesso Cleaver: “Molti omosessuali neri, acconsentendo a questo desiderio di morte razziale, sono indignati e frustrati perché nella loro malattia non possono avere un figlio da un uomo bianco. La croce che devono portare è che, già piegandosi e toccando le proprie dita dei piedi per l’uomo bianco, il frutto del loro incrocio non è la piccola prole mezza bianca dei loro sogni, ma il progressivo disfacimento del loro sistema nervoso. anche se raddoppiano gli sforzi e l’assunzione di sperma dell’uomo bianco”. D’altronde, sin dalla schiavitù, il maschio africano-americano era stato largamente privato della sua virilità anche in termini di autorevolezza e autorità sociale e familiare. Per tutto il XVIII e il XIX secolo, gli africano-americani scrissero di questa incessante lotta per la virilità. Le narrazioni abbondano e parlano di uomini neri che tentano di mantenere un certo senso di sé, pur ricordando costantemente la propria servitù. Ad esempio, in Twenty Two Years a Slave, Austin Steward racconta che la lotta più grande che egli e altri come lui avevano dovuto affrontare era stata quella di vedere le loro mogli sfruttate mentre loro erano costretti a sottomettersi senza un mormorio. In realtà, gli africano-americani non potevano permettersi garantire alcuna protezione alle loro mogli e consideravano questa realtà come il più grande degli insulti alla loro virilità.

In un testo come Narrative of the Life and Adventures of Henry Bibb, Bibb racconta che, da bambino, venni frustato; dove avrei dovuto ricevere un’istruzione morale, mentale e religiosa fui invece oggetto di una violenza il cui scopo era quello di degradarmi e tenermi sottomesso.

L’esperienza di Bibb non era fuori della norma. Gli schiavisti condividevano il desiderio di “tenere gli uomini di colore al loro posto”: un posto, cioè, di degradazione e vergogna. Uno degli obiettivi della schiavitù, a ben vedere, era quello di distruggere ogni senso di potere o di orgoglio che il maschio africano possedeva, cioè la sua mascolinità, e di tutto veniva fatto per raggiungere tale scopo.

Spogliati della virilità e della capacità di ricoprire adeguatamente i ruoli di padre e marito gli africani e i loro discendenti ridotti in schiavitù si ritrovarono con un complesso di inferiorità appena. Eppure non erano soli. Anche i neri liberti dell’inizio del XIX secolo scrissero del loro persistente tentativo di assicurarsi la virilità in una società che lavorava contro i loro sforzi. Questa lotta con l’idea e il raggiungimento della mascolinità emerge come tema principale della narrativa maschile africano-americana del XVIII e XIX secolo.

La fine della schiavitù, le leggi cosiddette «Jim Crow» e le pratiche segregazioniste rafforzano un senso di isolamento che negli anni Sessanta -con il Civil Rights Act (1964), il Voting Rights Act (1965), il Fair Housing Act (1968)- s’infrange grazie a una serie di atti d’autocoscienza che tendono a ribaltare e a trasformare stereotipi spregiativi sedimentatisi nella società americana. In larga parte, la sessualità nera era stata ammantata dalla fantasia e dalla paura dei bianchi. Si pensava che le donne africano-americane fossero infoiate e pronte a essere importunate. Degli uomini africano-americani si diceva che avessero grandi desideri sessuali e organi ancora più grandi per realizzare la loro lussuria. Gli uomini bianchi erano ossessionati dall’idea di contenere la minaccia sessuale rappresentata dagli africano-americani. Durante la schiavitù e dopo l’emancipazione, i neri hanno resistito e alcuni di loro si sono anzi abbeverati alle convinzioni malate dei bianchi sulla sessualità degli africano-americani, cercando di soddisfare il mito dell’inestinguibile lussuria nera. La logica non è difficile da capire: «se i bianchi reputano che io sia un fuorilegge sessuale», pensavano, «lo dimostrerò». Altri neri si sono comportati diversamente, disciplinando rigidamente i propri impulsi sessuali per cancellare gli stereotipi di un’eccessiva sessualità nera. Interrompevano il piacere e il profitto dei bianchi, un corpo alla volta.

L’orgoglio nero afferma la negritudine come positiva alterità, facendo uso del corpo dell’africano-americano come arma, come oggetto inarrivabile di desiderio da parte dei bianchi. La blaxploitation divulga il modello dell’africano-americano come personaggio cool. In Cool Pose: The Dilemmas of Black Manhood in America, Richard Majors sostiene che l’impulso del maschio nero ad essere “cool” è il suo modo di affrontare il razzismo e la discriminazione senza perdere la propria sanità mentale. Detto in altro modo, la “coolness” è un meccanismo di sopravvivenza che permette agli africano-americani di avere un certo controllo sulle loro vite: Essere cool rinvigorisce una vita che altrimenti sarebbe degradante e vuota. Aiuta il maschio nero a dare un senso alla sua vita e a ottenere ciò che vuole dagli altri. La postura cool porta una vitalità dinamica negli incontri quotidiani del maschio africano-americano, trasformando il mondano in sublime e rendendo spettacolare la routine.

Da Backlash (che accoglie un “classico” hubbardiano come Little Sunflower e che vede il trombettista affiancato da James Spaulding, Albert Dailey, Bob Cunningham, Otis Ray Appleton, Ray Barreto) in poi, passando per High Blues Pressure (cui partecipano musicisti come Weldon Irvine, James Spaulding, Bennie Maupin, Louis Hayes, Kenny Barron, Howard Johnson, Freddie Waits, Herbie Lewis ed altri), Soul Experiment (con Carlos Garnett, Pretty Purdie o Grady Tate, Kenny Barron, Billy Butler o Eric Gale, Gerry Jemmott, Gary Illingworth), The Black Angel (con James Spaulding, Carlos “Patato” Valdez, Kenny Barron, Reggie Workman, Louis Hayes) -tutte incisioni per la Atlantic- si estende una marcia d’avvicinamento di Hubbard ad una diversa concezione linguistica: in realtà, per quanto lo stesso Hubbard desiderasse escluderlo, l’impronta boppistica è inevitabilmente in evidenza, con quelle venature funky e latinoamericane che caratterizzavano la produzione del trombettista sin dai suoi esordi.

Laddove Miles Davis, in opere coeve come In A Silent Way e Bitches Brew, aveva definitivamente abbandonato le strutture boppistiche, accogliendo istanze linguistiche diverse ma rielaborate all’interno di una visione originale, Hubbard non riuscirà mai a separarsi del tutto di una certa ortodossia generazionale, pur avendone i mezzi, come peraltro prova una pagina come Spacetrack (da The Black Angel), oltre quindici minuti d’esplorazione sonora dai confini linguistici mai così ampli. Ancora una volta, invece, anche nelle incisioni per la Atlantic, Hubbard offre il meglio di sé come divulgatore dei fondamentali del Canone africano-americano (in modo particolare il sistema tonale del blues) e in struggenti, agrodolci ballad come Eclipse.

Gli anni Settanta presentano, agli occhi di alcuni, la definitiva metamorfosi di Hubbard, da alfiere dello hard bop a reazionario esponente di improbabili contaminazioni con la musica d’evasione. Eppure, la molto criticata discografia di Hubbard per l’etichetta CTI dell’abile produttore Creed Taylor, rappresenta forse l’apice della sua opera come divulgatore del Canone africano-americano, per quanto inserito all’interno di una formula, e l’ultima fase della sua innovatrice creatività, prima di giungere ad una prolungata, classica cristallizzazione del suo stile improvvisativo.

L’etichetta di Taylor, come si sa, propugnava una “volgarizzazione” del jazz attraverso la sua contaminazione con elementi della musica popolare coeva, affidando ogni produzione ad una serie di solisti e arrangiatori di grido e d’alta professionalità, capaci in diversi modi di operare nel campo del crossover sofisticato, così come raffinato era persino il concetto del packaging e dell’art-work.

Una parte non indifferente degli artisti aggregati da Taylor (già produttore per la Bethlehem, l’ABC, la Impulse e la Verve) proveniva dal mondo dello hard bop e di una sua derivazione come il soul jazz: George Benson, Herbie Hancock, Ron Carter, Stanley Turrentine, Hank Crawford, Nat Adderley, Joe Farrell vanno ad arricchire una “scuderia” che ospiterà artisti brasiliani come Walter Wanderley, Antonio Carlos Jobim, Milton Nascimento, Airto Moreira; figure iconiche come Paul Desmond, Chet Baker, Milt Jackson, Art Farmer, Yusef Lateef, Jim Hall; arrangiatori di diversa estrazione come David Matthews, Bob James, Don Sebesky, Eumir Deodato, Lalo Schifrin; strumentisti di valore come Urbie Green, Hubert Laws, Gábor Szabó, Johnny Hammond, Roland Hanna, Lonnie Smith, Grover Washington,Jr., Idris Muhammad, Joe Beck; cantanti come Nina Simone, Esther Phillips, Patti Austin. Hubbard si adatta con notevole flessibilità alla levigatezza produttiva della nuova etichetta (largamente finanziata da Herb Alpert e Jerry Moss della A&M) e per certi versi non fa che estendere l’accessibilità del suo credo estetico, senza però cadere nella trappola dell’eccessiva e slabbrata facilitazione.

La sua prima incisione per la CTI, non casualmente, è un capolavoro dello hard bop più moderno, aggiornato e sensibile ai nuovi percorsi della musica popolare africana-americana: Red Clay (27-29 gennaio 1970, CTI 6001) è, come nel titolo, hard bop argilloso e scuro, esplicito nei suoi movimenti funky, modale e radicato nel blues, interpretato con un alto magistero strumentale da un gruppo che comprende Joe Henderson al sassofono tenore e al flauto, Herbie Hancock al pianoforte elettrico e all’organo, Ron Carter al contrabbasso e al basso elettrico, Lenny White alla batteria. Hubbard -così come lo stesso Henderson- non rinuncia alla sua eredità boppistica (basti ascoltare temi come Suite Sioux e The Intrepid Fox) ma sa rileggerla alla luce di quel rhythm’n’blues elettrificato con il quale artisti come James Brown e Sly Stone si erano imposti al pubblico sia africano-americano che americano.

Quello che Sidewinder era stato per Lee Morgan, Red Clay lo è per Freddie Hubbard, e forse persino di più: una sorta di sigla, di firma istantaneamente riconoscibile perché affidata a un materiale musicale memorabile per apparente semplicità di formulazione e per opposta ricchezza di complessità interpretativa. In Red Clay, Hubbard compie un mirabile percorso dal commercio all’arte, unendo accessibilità e sofisticazione con raro senso di equilibrio ma con un’espressività che è logica conclusione di un iter linguistico iniziato un decennio prima presso la Blue Note.

Da questo momento inizia per lui il cammino verso la classicità, verso il definitivo assestamento del suo approccio stilistico, che in Red Clay dà vita anche al suo caratteristico e virtuosistico uso di shake (trillo corto con l’armonico superiore) e lip trill (trillo lungo con l’armonico superiore) ascendenti e di note blue “piegate” con effetti particolari quanto caratteristici.

Incisioni successive per la CTI -come Straight Life (16 novembre 1970, CTI 6007, con Joe Henderson, Herbie Hancock, George Benson, Ron Carter, Jack DeJohnette, Richie Landrum e Weldon Irvine), First Light (16 settembre 1971, CTI 6013, premiata con il Grammy Award, con Richard Wyands, Hubert Laws, Ron Carter, Jack DeJohnette, George Benson e una sontuosa orchestrazione affidata a Don Sebesky), Polar AC (12 aprile 1972, CTI 6056, con Hubert Laws, George Benson, George Cables, Ron Carter, Lenny White, Airto Moreira e gli arrangiamenti di Bob James), Sky Dive (4 e 5 ottobre 1972, CTI 6018, con George Benson, Keith Jarrett, Ron Carter, Billy Cobham, Airto Moreira, Ray Barreto e, nuovamente, gli arrangiamenti di Don Sebesky), In Concert I/II (3 marzo 1973, CTI 6044 e 6049, con Stanley Turrentine, Eric Gale, Herbie Hancock, Ron Carter, Jack DeJohnette), Keep Your Soul Together (5 e 23 ottobre 1973, CTI 6036, con Junior Cook, George Cables, Ron Carter, Ralph Penland e altri)- esibiscono uno strumentista in certi momenti (si pensi all’opulenza di First Light) persino maestoso nella superba sonorità, nel fluire di originali linee melodiche, nel virtuosismo estremo ma largamente utilizzato per adeguati fini espressivi.

Un artista, per l’appunto ormai classico, che ha messo a punto il proprio lavoro espressivo, senza in realtà essersi “sporcate le mani”. Le incisioni per la CTI, infatti, rappresentano la personalità di Hubbard nella sua completa maturazione, in un contesto forse esageratamente estetizzante ma al servizio del trombettista, che delinea e tratteggia, con mano salda, un riassunto sistematico delle proprie esperienze, quasi un’autobiografia con qualche tentazione agiografica ma ben di rado commerciale nel senso deteriore della parola. In una personalità d’interprete naturalmente propensa all’orgogliosa esibizione dei propri mezzi, cui non manca rivendicazione delle proprie origini etnico-culturali, non deve stupire l’inclinazione all’autoritratto. Abbandonato il gusto (o la curiosità) per certi esplorativi momenti d’astrazione e per la rilettura provocatoria del Canone musicale popolare musicale africano-americano, Hubbard depone le armi dell’ironia guascona e si concede una celebrazione pittorica come avrebbero forse potuto idearla Wadsworth e Jae Jarrell o Barron Claiborne. Non la si sottovaluti: bastano Red Clay e certi momenti di Straight Life per capire che non era possibile andare oltre un’arte così compiuta nella sua missione di sintesi linguistica.

Appare perciò comprensibile che un senso di delusione pervada coloro che nella susseguente produzione con la Columbia noteranno un abbandono della creatività e della rilettura più indagatrici, a favore di una comunicativa incline a cedere le armi alla colloquialità non di rado banale. È il caso sicuramente di Windjammer (1976, Columbia PC-34166), una produzione di Bob James manifestamente commerciale e realizzata in un pressoché parodistico linguaggio pseudo-funky; lo si può dire di Bundle of Joy (1977, Columbia BL-34902), pur ricco di un cast stellare di musicisti ma inerte rifacimento di un mondo ormai artificioso e turbato dall’intervento intrusivo di contributi vocali.

Sarebbe però ingeneroso spacciare per meri tentativi di cedimento all’effimero lavori spesso eccellentemente espressivi, ancorché fortemente virtuosistici o divulgativi, come High Energy (1974,Columbia KC-33048, con George Cables, Joe Sample, Junior Cook, Victor Feldman e altri), Gleam (1975, Columbia 20AP 1421, con Henry Franklin, George Cables, Carl Burnett, Buck Clark, Carl Randall, Jr.), Liquid Love (1975, Columbia C 33556, con George Cables, Chuck Rainey, Carl Burnett, Henry Franklin e altri), Super Blue (1978, Columbia JC-35386, con Joe Henderson, Ron Carter, Kenny Barron, Jack DeJohnette, Hubert Laws, George Benson), The Love Connection (1979, Columbia JC 36015, orchestrazioni di Claus Ogerman, con Chick Corea, Joe Farrell, Ernie Watts, Chester Thompson, Chuck Findley, Phil Ranelin e altri), Skagly (1980, Columbia Cbs 84242, con Billy Childs, Hadley Caliman, Larry Klein, Carl Burnett): tutte incisioni cui si potrebbe aggiungere Hot Horn, del 1973 per la Everest, poi ripubblicato nel 1981 per Piccadilly PIC 3467, realizzazione precaria dal punto di vista fonico ma rara testimonianza del magistero hubbardiano, ripreso durante un concerto dal vivo con Cedar Walton, Junior Cook, Wayne Dockery, Billy Hart- in cui Hubbard, sia alla tromba che al flicorno, si dimostra strumentista sicuro e solista generoso, attento lettore degli episodi musicali popolari africani-americani, più insicuro dal punto di vista interpretativo, conscio forse di avere superato il suo momento di massima creatività.

Negli anni successivi la discografia di Hubbard si arricchisce ulteriormente, testimoniando un interprete di consueta espansività, dalla tecnica spavalda, capace di un pensiero musicale ormai consueto e forse scontato, ma pur sempre notevole (pur se non impeccabile) nella resa artigianale e nella proprietà linguistica: la sua idiomaticità rimane il più delle volte incomparabile rispetto alla sovrabbondanza di ripetitivi ed esangui hard-bopper, molti dei quali appartenenti alla schiera degli ex-young lions.

Sono molteplici le testimonianze discografiche di valore che si potrebbero citare, oltre alle collaborazioni con Oscar Peterson (Face to Face), Kenny Burrell (God Bless the Child), Charles Earland (Leaving This Planet), Randy Weston (Blue Moses), Milt Jackson (Sunflower), McCoy Tyner (Together), e persino Billy Joel (52nd Street): Live at the North Sea Jazz Festival (12 luglio 1980, Pablo 2620 113, con David Schnitter, Billy Childs, Larry Klein, Synclair Lott), Outpost (16/17 marzo 1981, Enja, con Kenny Barron, Buster Williams, Al Foster), Rose Tattoo (1983, Baystate RJL 8095, con Ricky Ford, Kenny Barron, Cecil McBee, Joe Chambers), l’eccellente Sweet Return (14 giugno 1983, Atlantic 80108, con Lew Tabackin, Joanne Brackeen, Eddie Gomez e Roy Haynes), Life Flight (23 e 24 gennaio 1987, Blue Note BT 85139, con Stanley Turrentine, Ralph Moore, Larry Willis, Rufus Reid, Carl Allen, George Benson, Idris Muhammad, Wayne Braithwaite), l’eccellente Bolivia (1991, Music Masters/Jazz Heritage, con Cedar Walton, Giovanni Hidalgo, Vincent Herring, Ralph Moore, Billy Higgins, David Williams), registrato alle soglie dell’incidente al labbro che avrebbe condotto Hubbard verso la fine dolorosa della sua carriera, impossibilitato ad essere fisicamente sé stesso.

Non possono certo essere trascurate le pagine realizzate dall’artista nel corso del suo impegno con il gruppo V.S.O.P. (Very Special One-time Performance), con Herbie Hancock, Wayne Shorter, Ron Carter e Tony Williams: incisioni come The Quintet (Columbia 34976, 16 luglio 1977), Tempest in the Colosseum (Columbia COL 471062 2, 23 luglio 1977) e Live Under The Sky (Columbia Legacy 2004, 26/27 luglio 1979) sono ulteriore prova di una muscolare espressività, arricchita da un virtuosismo tecnico che, in taluni casi, oscura la lucidità del discorso strutturale, come spesso capita in eventi costruiti appositamente per attirare l’attenzione delle grandi platee. Scrive Dave Douglas: Freddie porta qualcosa di molto diverso. È generoso con le note e con la grazia che ne scorre. Un tipo diverso di grazia, come un maestro di cerimonie gregario. Freddie è talmente al di sopra della musica e della tecnica che non riesce a frenare la gioiosa esuberanza delle sue idee e la sua capacità di realizzarle.

Questo spiega molto del perché sia più imitato di Miles Davis: il suo stile offriva molto più materiale a cui aggrapparsi. Miles Davis e Freddie Hubbard erano due visioni molto diverse dell’estetica moderna. Gli echi di Miles si sentono spesso, ma il suono di Freddie si sente ovunque.

Al di sopra delle realizzazioni con il gruppo V.S.O.P. e di buona parte delle opere incise da Hubbard nell’ultimo decennio attivo della sua carriera, soprattutto per testimonianza storica di un’elaborazione estetica rivista e riletta con chiara maturità di pensiero, si elevano due incisioni Blue Note, Double Take (BT 85121, 22 novembre 1985, con Mulgrew Miller, Kenny Garrett, Cecil McBee, Carl Allen) e Eternal Triangle (BN1 48017, 11/12 giugno 1987, stesso personale, salvo Ray Drummond, che sostituisce Cecil McBee), che testimoniano l’incontro di Hubbard con Woody Shaw (più giovane rispetto a Hubbard di poco più di sei anni), ad egli affine per sensibilità, intelligenza, virtuosismo, proprietà linguistica.

Tali realizzazioni rappresentano un sottovalutato compendio linguistico, enciclopedico studio sul jazz modale, sull’uso del linguaggio diatonico e del cromatismo, sulla sofisticazione ritmica, sull’idiomaticità, sull’equilibrio fra solisti all’interno di uno stesso complesso.

Come ebbe a commentare Michael Cuscuna, Riunire i due trombettisti jazz viventi più imprevedibili e più creativi in una situazione musicale non competitiva poteva sembrare una pura follia. Per quanto Shaw non riconoscesse volentieri un debito artistico nei confronti di Hubbard, egli aveva in comune con questi un approccio strumentale estroverso, un’articolazione particolarmente incisiva, un’inclinazione per giochi intervallari particolarmente sofisticati e naturalmente difficili per uno strumento come la tromba, un approccio tecnico sofisticato e virtuosistico posto al servizio di un pensiero musicale sofisticato, una concezione armonica peculiarmente avanzata e di carattere spesso politonale, un eloquio chiaramente indebitato nei confronti di altri sassofonisti più che trombettisti (egli citava come influenze determinanti, non a caso, Eric Dolphy e John Coltrane).

Poste a confronto, le due personalità si stimolarono a vicenda: se Shaw subiva il magistero tecnico di Hubbard, egli riusciva comunque a superarsi in sofisticazione armonica e audacia cromatica, spingendo l’altro ad estendere i limiti del proprio linguaggio come non accadeva da lungo tempo.

Le incisioni in questione rappresentano ancora una summa di sofisticazioni musicali, di eleganti e intelligenti riarmonizzazioni, di invenzioni linguistiche (l’uso di strutture intervallari per creare coesione all’interno di incongruenze armoniche; la capacità di scegliere le note in passaggi riarmonizzati in modo da farli apparire inconsueti e originali pur attraverso un’impostazione del tutto tradizionale; la capacità, in determinati passaggi, di gestire l’instabilità tonale del cromatismo fino a risolvere il passaggio stesso in un modello diatonico; la sapiente creazione di simmetrie in una sequenza intervallare; la ripetizione di gesti simili in differenti trasposizioni; la creazione di strutture familiari che servono a implicare una riarmonizzazione senza fare uso del cromatismo; la riarmonizzazione di accordi dominanti che si risolvono alla tonica in modo non idiomatico; la riarmonizzazione modale, cioè la pratica di riarmonizzare un dato accordo o una data scala o una progressione accordale attraverso uno o più modi estranei alla progressione).

Pagine come Moontrane, Lotus Blossom, Hubtones, São Paulo ripercorrono con acutezza ed eccezionale maturità l’intera storia dello hard bop e delle sue varianti modali. Sia Double Take che Eternal Triangle sono un tributo all’arte di Shaw e, naturalmente, di Hubbard. In pochi anni, quest’ultimo sarà costretto a rinunciare alla propria personalità d’interprete e di virtuoso, impossibilitato ad esprimersi come d’abitudine, impreciso alla tromba e al flicorno: sia New Colors che On The Real Side, in cui musicisti come Craig Handy, Russell Malone, Myron Walden, Luis Bonilla, Ted Nash, Joe Chambers, Lewis Nash, David Weiss, Xavier Davis, Jimmy Greene, Steve Davis reinterpretano alcune significative composizioni hubbardiane, accentuano il rimpianto per un artista dall’impareggiabile talento drammatico e dagli improvvisi, sofisticati, lirici squarci di vivida poesia, che, dimenticato troppo in fretta, ha assunto su di sé, più di qualsiasi altro interprete suo coevo, il peso di un’intera tradizione, quella hardboppistica, e la responsabilità di rinnovarla, proiettandola nel futuro.

Un’impresa che solo a Hubbard è riuscita in modo così significativo. Come commenta James Hale, pur con qualche considerazione critica di troppo: Per apprezzare appieno la creatività di Hubbard, si consideri per un momento il terreno stilistico che ha saputo coprire in soli 10 anni – 1963-73 – e si cerchi di pensare a un altro artista che si sia spinto così lontano senza sacrificare la propria voce. Un gigante, certo, che rende gli ultimi 25 anni della sua vita ancora più tristi.

Dave Douglas aggiunge illuminanti parole: I trombettisti sono stati spesso figure tragiche nella vita americana. Freddie Hubbard non era diverso. Gli ultimi quindici anni della sua vita lo hanno visto lottare contro un disastroso infortunio al labbro che ha limitato la sua capacità di realizzare le sue idee. Freddie ha anche lottato contro le forze della moda: per sua stessa ammissione (anche se non necessariamente per quella dei suoi fan) ha trascorso alcuni anni facendo musica che non era all’altezza dei suoi standard elevati. All’inizio degli anni Settanta aveva fatto praticamente tutto quello che si poteva fare: documentato molti assoli-capolavoro, partecipato a decine di registrazioni fondamentali, elaborato una visione personale dello strumento e della musica che resiste ancora oggi. Dove sarebbe dovuto andare? È difficile immaginare un’eredità e una pressione del genere a un’età così giovane. Possiamo essere grati per la gioia che Freddie Hubbard ci ha portato nei suoi settant’anni di vita. Ci mancherà.