// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
È certamente difficile attribuire una patente di «intellettualità» ad un approccio musicale che non ha mai disdegnato una voluttà muscolare disinibitamente esibita. Si sbaglierebbe però a considerare Hubbard un artista esemplare malgré lui, un esempio di fulgida ma inconscia o, peggio, incosciente musicalità, un fenomeno tecnico dalla ricchezza puramente spontanea, mai o quasi mai mediata dall’operato di un vero, lucido e sofisticato pensiero musicale. Egli non è stato semplicemente un acrobata del proprio strumento, come talvolta s’è cercato di far passare. Per quanto egli potesse, in certi rari momenti, sembrare non del tutto a suo agio nell’intrico collettivo di Free Jazz di Ornette Coleman, la sua partecipazione ad alcune fra le più grandi opere musicali africano-americane, soprattutto in un periodo storico gravido di implicazioni ideologiche, non può certo dirsi casuale.
Nel corso degli anni Sessanta Hubbard è, infatti, presente al fianco degli innovatori della musica improvvisata africana-americana, oltre ai già citati John Coltrane, Oliver Nelson, Ornette Coleman ed Eric Dolphy (a proposito di quest’ultimo, basti ricordare l’apporto decisivo del trombettista in alcune pagine -come Gazzelloni e Straight Up and Down– di un manifesto del free bop quale Out To Lunch! Come scrive Taylor Ho Binum: Out to Lunch vanta fra i più straordinari assolo di tromba mai registrati, una combinazione di virtuosistica tecnica post-bop e di coraggiosa musica innovativa che risulta ancora oggi entusiasmante.): Herbie Hancock (Takin’ Off, Empyrean Isles, Maiden Voyage, Blow-Up), Wayne Shorter (Speak No Evil, All Seeing Eye, Toothsayer), Bobby Hutcherson (Dialogue, Components, Spiral), Sam Rivers (Contours), Andrew Hill (Compulsion, One For One), Max Roach (Drums Unlimited), Sonny Rollins (East Broadway Rundown). Per tacere delle molte incisioni realizzate con Hank Mobley (Turnaround, Straight No Filter), Duke Pearson (Sweet Honey Bee, The Right Touch), Dexter Gordon (Clubhouse), Lou Donaldson (Lush Life, Sweet Slumber), Sarah Vaughan (It’s A Man’s World, Sassy Swings Again), Ronnie Mathews (Doin’ the Thang), Booker Ervin (Booker & Brass), George Benson (The Other Side of Abbey Road, Body Talk), Quincy Jones (l’eccellente colonna sonora di The Pawnbroker e l’album Walking In Space), Manny Albam (Soul of the City). Né vanno dimenticate opere firmate dallo stesso Hubbard come Breaking Point (7 maggio 1964, Blue Note BN 4172), Blue Spirits (19 e 26 febbraio 1965, Blue Note BN 4196, una vera e propria “summa” del suo lavoro alla Blue Note, fra groove ereditati da The Sidewinder di Lee Morgan, riff funky, echi d’improvvisazione più libera, post-bop coltraniano), Night of the Cookers 1 & 2 (9 e 10 aprile 1965, Blue Note BN 4207/08), soprattutto le notevoli The Artistry of Freddie Hubbard (2 luglio 1962, Impulse AS-27) e The Body & The Soul (8 e 11 marzo/2 maggio 1963, Impulse AS-38).
Sin dagli esordi Hubbard si preoccupa di agire all’interno del Canone africano-americano (il suo riallaccio al blues è tratto costante di tutto il suo corpus di lavori), rivalutando e aggiornando valori fondanti e tradizionali della tradizione musicale nera in America; è altrettanto evidente che egli si preoccupasse della «leggibilità» e della comprensibilità della sua estetica musicale: If the music doesn’t communicate something to the audience, there is not much point to it.
Proprio l’accessibilità del suo linguaggio rende in qualche modo «classica» pressoché tutta la sua produzione migliore e fa di Hubbard uno fra i più notevoli divulgatori della musica africana-americana; soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando, artista ormai affermato e leader in proprio, egli si avvicina ad alcune espressioni più popolari della tradizione musicale africano-americana.
Nascono così opere discografiche come Backlash (19 e 24 ottobre 1966, Atlantic 1477), High Blues Pressure (13 novembre 1967 e 10 gennaio 1968, Atlantic 1501), Soul Experiment (11 e 13 dicembre 1968, 21 gennaio 1969, Atlantic 1526), The Black Angel (16 maggio 1969, Atlantic 1549). C’è chi ha inteso tali incisioni come i primi passi di un processo involutivo che avrebbe poi portato il trombettista alla dissoluzione del suo patrimonio musicale e culturale: è una posizione piuttosto diffusa e forse condizionata da scorie ideologiche che legge in modo riduttivamente eurocentrico una serie di momenti culturali che sempre di più, invece, si allontanano dalle tradizionali concezioni di origine europea. Hubbard è stato essenzialmente un divulgatore e commentatore del Canone africano-americano, un fluente oratore che si è espresso attraverso un corrispettivo musicale di quel Black English Vernacular che gli africano-americani sono talvolta restìi a usare per non passare per illetterati: la sua ansia di comunicare derivava, come egli stesso ammetteva, anche da un’ingenua ammirazione per quelle star dello show-business che, pur senza lo stesso talento di molti creatori africani-americani, potevano vantare una popolarità (e relativi benefici) a quelli invece preclusa. Seppur confusamente, Hubbard avvertiva in tale disparità anche l’effetto della sperequazione esistente fra l’establishment bianco e le masse africano-americane, una presa di coscienza che lo spinge ad assumere pubblicamente una posizione politica a riguardo.
Alla fine degli anni Sessanta, egli partecipa alla realizzazione di un impegnativo lavoro del compositore turco İlhan Mİmaroğlu(allora fra i principali produttori della Atlantic Records), Sing Me a Song Of Songmy [(A Fantasy for Electromagnetic Tape, featuring Freddie Hubbard and his Quintet, with Reciters, Chorus, String Orchestra, Hammond Organ, Synthesized & Processed Sounds,Composed & Realized by Ilhan Mimaroglu on Poems by Fazil Husnu Daglarca & Other Texts), Atlantic SD 1576]: un incontro fra il quintetto dello stesso Hubbard (con Junior Cook, Kenny Barron, Art «Juini» Booth e Louis Hayes), varie forze orchestrali e una serie di materiali sonori rielaborati secondo i dettami della cosiddetta “musica concreta”, di cui Mİmaroğlu -allievo di Douglas Moore e Vladimir Ussachevsky, collaboratore di Edgar Varèse e Stefan Wolpe, fra gli autori della colonna sonora per Satyricon di Fellini- era un esponente.
L’opera, pubblicata discograficamente nel 1971 fra non poche polemiche, rievoca in termini espliciti, a guerra del Vietnam ancora in corso, il contesto socio-politico degli anni Sessanta negli Stati Uniti e non solo: testi recitati (da Che Guevara a Søren Kierkegaard) e una partitura elettro-acustica si intersecano nel commentare l’assassinio di Sharon Tate, le sollevazioni studentesche nei campus, le varie forme d’indottrinamento delle masse e di oppressione culturale, omicidi politici, le lotte per i diritti civili.
L’apporto del quintetto del trombettista rientra in un unico, composito mosaico fonico, in cui determinate sonorità identificabili con il jazz servono a caratterizzare in qualche modo il suono di un’epoca. Di fronte alle critiche suscitate Hubbard, per quanto ingenuamente, fu esplicito: I was trying to keep black kids from going to Vietnam and fighting, because most of them would die over there (Howard Mandel).
Va ricordato che proprio in quegli anni, nel 1971, Marvin Gaye, con la creazione dell’album What’s Going On (una serie di canzoni ispirate alla guerra del Vietnam così come vissuta anche dai soldati e dalla popolazione africano-americani),contribuiva a rivoluzionare l’estetica della musica popolare africano-americana, non solo fondendo in un unico linguaggio musicale più esperienze linguistiche, dal soul al jazz, ma inserendolo prepotentemente in un contesto socio-politico e culturale.
Il commento a tal proposito di Gaye non si differenzia troppo da quello di Hubbard: Nel 1969 o 1970 ho iniziato a rivalutare il mio concetto di ciò che volevo che la mia musica dicesse… Ero molto influenzato dalle lettere che mio fratello mi mandava dal Vietnam e dalla situazione sociale qui a casa. Ho capito che dovevo lasciare alle spalle le mie fantasie se volevo scrivere canzoni che raggiungessero l’anima delle persone. Volevo che lanciassero uno sguardo a ciò che stava accadendo nel mondo (Rolling Stone, 2008).


Agli inizi degli anni Settanta Hubbard aderisce alle iniziative del Jazz and People’s Movement, un collettivo di protesta, guidato da Rahsaan Roland Kirk, il cui scopo era ottenere che la televisione americana non ostracizzasse il jazz: nel corso della registrazione di alcuni popolarissimi spettacoli (eminentemente quelli di Dick Cavett, Johnny Carson, Merv Griffin), i membri del gruppo rumoreggiavano, distribuivano materiali propagandistici, interrompevano la realizzazione degli show.
Come ebbe a commentare Lee Morgan, uno degli autori della protesta: L’etere appartiene al pubblico e noi siamo qui per drammatizzare questo fatto. Il jazz è l’unica vera musica americana, ma quanto spesso si vedono musicisti jazz davanti alla telecamera? E non stiamo parlando dei musicisti di jazz che suonano nelle orchestre televisive! Tali “agguati” contro i network ebbero comunque l’effetto di attirare l’attenzione del pubblico, procurando ad alcuni musicisti la possibilità di esibirsi all’interno di spettacoli ampiamente seguiti.
Soprattutto Dick Cavett concesse spazi del suo programma ai componenti del movimento, ospitando proprio Freddie Hubbard nonché Cecil Taylor, Billy Harper, Andrew Cyrille, Edith Kirk (moglie di Rahsaan Roland Kirk). Sulla spinta dell’iniziativa, il programma Positively Black della NBC accoglieva un Dialogue of the Drums fra Rashied Ali, Andrew Cyrille e Milford Graves, mentre lo Ed Sullivan Show, l’unico grande spettacolo televisivo che il movimento non aveva “attaccato”, ospitava un gruppo di musicisti guidati da Rahsaan Roland Kirk (con Sonelius Smith, Joe Texidor, Henry Pearson, Charles McGhee, Maurice McKinney, Dick Griffin, Roy Haynes, Archie Shepp e Charlie Mingus).
Per certi versi, allo stesso modo di artisti come Marvin Gaye o Curtis Mayfield, Hubbard riconosce l’esistenza di un sistema iniquo, che soggioga gli uomini di colore così come venivano soggiogati gli schiavi, li sfrutta e nega loro la possibilità dell’uguaglianza, dei pari diritti, anche economici. Il concetto, d’altronde, è sempre stato ben chiaro agli intellettuali africano-americani, come fa notare Saidiya Hartman in Scenes of Subjection: Terror, Slavery, and Self-Making in Nineteenth-Century America: Il ʻterribile spettacoloʻ che introdusse Frederick Douglass alla schiavitù fu il pestaggio di sua zia Hester. (…) Collocando questa ʻorribile esibizioneʻ nel primo capitolo della sua “Narrative of the Life of Frederick Douglass” del 1845, Douglass stabilisce la centralità della violenza nella creazione dello schiavo e la identifica come un atto generativo originario equivalente all’affermazione ʻIo sono natoʼ.
Il passaggio attraverso il cancello macchiato di sangue è un momento inaugurale nella formazione dello schiavo. In questo senso, è una scena primordiale. Con questo intendo dire che il terribile spettacolo drammatizza l’origine del soggetto e dimostra che essere uno schiavo significa essere sotto il potere brutale e l’autorità di un altro; ciò è confermato dalla collocazione dell’evento nel capitolo di apertura sulla genealogia. Pur privo di una preparazione politica omogenea, Hubbard sceglie (o s’illude) di combattere il sistema dall’interno, non dall’esterno.
Piuttosto che aderire, dunque, all’aggressività ribelle del free jazz e delle sue derivazioni, egli opta per un’estensione dell’accessibilità che, con la sua esplicita adesione ai valori fondamentali del Canone popolare africano-americano, già caratterizzava il suo approccio creativo, ben ricordando, peraltro, che la prima, vera, massiccia incursione nella cultura bianca la tradizione africana-americana non la aveva compiuta con il jazz, bensì con il R&B e la sua influenza esercitata sul rock’n’roll.
D’altronde, per quanto possa sembrare semplice, la definizione di cosa possa intendersi per “avanguardia” all’interno di una tradizione culturale d’origine orale -ricostruita peraltro in un altrove e in condizione di schiavitù, perciò displaced, e basata su di un continuum che ininterrottamente unisce il passato al presente- è fatto complesso. Come scrive Fred Moten (In the Break: The Aesthetics of the Black Radical Tradition): Questa è la politica spaziale dell’avanguardia. Ciò significa che l’avanguardia non è solo un concetto storico-temporale, ma anche spaziale-geografico. Anche in questo caso, Hegel lo avrebbe capito. Vincolo, mobilità e spostamento sono quindi condizioni di possibilità dell’avanguardia. Anche il deterioramento è cruciale per l’avanguardia: come estetica, come effetto del disinvestimento, come condizione psichica: il decadimento della forma e l’ambiente interno ed esterno della produzione estetica rigenerativa: girare, svanire, racchiudere, invaginare.
Ma c’è una rimaterializzazione dello spazio-tempo borghese che è anche ciò che è l’avanguardia e dove è. Quest’avanguardia interrompe lo spazio fantasmaticamente solipsistico della produzione e della ricezione estetica borghese con alcuni rumori portati, voci/forze, mobilizzati attraverso ermetismi forzati. E questo funziona con ma anche al di fuori della formulazione di Alain Locke di una modernità migratoria nera; non al di fuori ma aldilà di essa. Attribuire, perciò, a taluni tentativi di divulgazione del Canone africano-americano da parte di Hubbard solo un (dis)valore di pura operazione commerciale, può essere improprio.
Nella tradizione musicale africano-americana il valore “politico” non si evolve attraverso gli stessi parametri con cui esso viene letto nelle tradizioni eurocentriche. Non casualmente, figure intellettuali pur diverse come quelle di Marvin Gaye e di Amiri Baraka concordano, ad esempio, nell’attribuire un significato politico rilevante alle canzoni di Martha and the Vandellas (celebre gruppo Motown degli anni Sessanta).
Gaye commentava a tal proposito: È buffo, ma tra tutti i gruppi di allora, pensavo che Martha and The Vandellas fossero i più vicini a dire veramente qualcosa. (…) Non era una cosa consapevole, ma quando cantavano brani come “Quicksand” o “Wild one” o “Nowhere to run” o “Dancing in the street” catturavano uno spirito che mi sembrava politico. E mi piaceva. (D. Ritz, Divided soul: the life of Marvin Gaye).
Concorda Baraka: «Keep on pushing” degli Impressions o “Dancing in the street” di Martha and The Vandellas (soprattutto in relazione alle rivolte estive, ad esempio “Summer’s here…”) fornivano un nucleo di sentimenti sociali legittimi, anche se principalmente metaforici e allegorici per gli africano-americani. (LeRoi Jones, Black Music). Il parallelo con Marvin Gaye non è fuori luogo, perché proprio Gaye stabilì un modello di comunicazione particolarmente attraente, significativo e anche “politico” per gli artisti africano-americani, conciliando volontà divulgativa ed accettazione di determinate regole del sistema, sovvertite dal suo interno.
Come fa notare Brian Ward in Just My Soul Responding: Rhythm and Blues, Black Consciousness, and Race Relations (1998): Gaye si chiedeva: “Con il mondo che esplode intorno a me, come posso continuare a cantare canzoni d’amore?”. Alla fine, il tenore dei suoi tempi difficili trovò espressione in “What’s Going On”, un album davvero fondamentale pubblicato nel 1971. Sintetizzando la profonda, anche se idiosincratica, spiritualità di Gaye con la sua preoccupazione sempre più pubblica per la devastazione militare, economica ed ecologica del pianeta, “What’s Going On” mescolava anche una gentile, intima atmosfera jazzistica con i sapori gospel del soul e un po’ di funk a bassa voce. A sovrastare l’intera miscela pastosa c’era la voce morbida e polisemica di Gaye.
A prescindere dall’argomento trattato, l’album fu un trionfo di tecnologia e visione musicale. Il brano che dà il titolo all’album è l’inizio di una scena teatrale, con il suo catalogo di problemi che affliggono il mondo. “Inner city blues (Makes me want to holler)” viaggiava verso il cuore delle privazioni dei ghetti; “Save the children” si voltava verso l’esterno per affrontare le possibilità catastrofiche della guerra nucleare. “Flyin’ high (in the friendly sky)” offriva un avvertimento comprensivo, ma comunque salutare, a coloro che cercano di sfuggire ai loro problemi attraverso la droga. Scritta dal punto di vista di uno che aveva percorso quella strada, era una canzone portentosa. (…) Gaye seguì le innovazioni di “What’s Going On” con “You’re the man”, un singolo stridentemente militante che non riuscì a entrare nelle classifiche del pop bianco, nonostante il le quotazioni di Gaye presso il pubblico del rock bianco progressista fossero aumentate notevolmente grazie a “What’s Going On”. Forse questo fallimento rivelò anche i limiti del sostegno dei bianchi liberali alle richieste degli africano-americani.
Il globalismo essenzialmente umanistico di “What’s Going On” era accettabile, ma una canzone che nell’anno delle elezioni del 1972 chiedeva un candidato che ponesse fine all’inflazione, curasse la disoccupazione cronica dei ghetti e sostenesse il busing sembrava troppo. D’altra parte, non era nemmeno uno dei migliori momenti musicali di Gaye e la strada delle buone intenzioni è stata spesso lastricata da molti brani scadenti. L’aspetto particolarmente rivelatore, e molto tipico, delle nuove preoccupazioni politiche di Gaye era la sua continua riluttanza a mettere a repentaglio il successo commerciale duramente conquistato per dar loro voce. Riflettendo sul tumulto dei suoi tempi difficili, si era chiesto: “Perché la nostra musica non aveva niente a che fare con tutto questo? La musica non doveva esprimere i sentimenti? No, secondo BG [Berry Gordy], la musica deve vendere. Questo era il suo intendimento. Ed era il mio”.
L’opinione di un artista come Herbie Hancock non era, d’altronde, meno esplicita: Capisco cosa s’intenda riguardo a un certo tipo di groove, come se questo fosse il vero R&B, e così via. Ma non sono d’accordo sul fatto che ci sia un solo modo di suonare.
Ho fiducia nella forza del contributo dei neri alla musica, e questa forza torna sempre al groove, in ogni caso. Dopo un po’ certe cose vengono eliminate. E la musica ricomincia a evolversi. (…) Non mi disturba affatto il fatto che si senta più rock and roll nei musicisti neri, a meno che non sia semplicemente scadente. L’idea di fare il rock and roll che esce dai Led Zeppelin non mi disturba. Capisco che si tratta di informazioni di terza mano peraltro originate dalla gente nera, ma se a qualcuno piace, si suoni pure.
Se la cultura del movimento dei diritti civili degli inizi rifletteva le tradizioni rurali e religiose del Sud, le fasi successive, dalla fine degli anni ’60 in poi, si rifacevano alla cultura urbana meno acquiescente nei confronti dei soprusi della società bianca, che il movimento New Negro aveva espresso e rappresentato sin dalla Harlem Renaissance. Scompaiono dalla scena le tute da lavoro e la nozione del “good Negro”, così come i completi e le cravatte dei leader della predicazione con la loro metafora e retorica religiose espressein canti e discorsi. Anche la filosofia non violenta, con il suo moralismo e il suo senso di salvezza attraverso la sofferenza, si presentava in tempi difficili, quando la guerra in Vietnam si stava intensificando e per molti giovani africano-americani la discriminazione razziale sembrava intensificarsi.
Nella cultura del movimento del Black Power emersero uno stile e un simbolismo più duri, più severi, dai pugni alzati delle Pantere Nere alla musica aggressiva di James Brown. In gran parte, naturalmente, si trattava di una questione di cambiamento generazionale. Martin Luther King, Jr, il più urbano dei leader del movimento per i diritti civili, era nato nel 1929; Stokely Carmichael eradel 1941: a separarli non era solo l’età. King, come sottolinea James Cone in Black Theology & Black Power, era radicato nella tradizione religiosa africano-americana: Nessuna tradizione o alcun pensatore ha influenzato la prospettiva di King quanto la fede che i neri hanno creato nella loro lotta per la dignità. e la giustizia. (…) Si scopre la fede di King soprattutto nelle sue prediche (…) pronunciate nelle (…) chiese africano-americane e nella pratica delle sue parole durante molte delle sue manifestazioni non violente.
Carmichael, e più tardi Rap Brown e le Pantere Nere, provenivano dai ghetti urbani e parlavano un linguaggio urbano e laico.
Come nel caso di King, il primo movimento per i diritti civili articolava le proprie radici religiose nella sua prassi cognitiva, ma questa mobilitava anche tradizioni laiche, musicali e politiche. Alla fine degli anni ’60, la prassi integrativa cominciò a dividersi: le caratteristiche del vernacolo di strada, quello che gli attivisti e i leader del movimento consideravano lingua del “popolo”, vennero considerate da molti come specchio ideale della negritudine (blackness) e della sua interiorità (soul); altri cercarono invece di istituzionalizzare gli studi africano-americani come nuova disciplina accademica. Così facendo, il popolare e l’accademico tendevano a separarsi.
Come radici dell’autenticità e dell’identità collettiva, i vernacoli di strada e la vita di strada urbana divennero il terreno su cui si mosse il movimento del Potere Nero. Il linguaggio forniva le strutture fondamentali del sentimento attraverso le quali l’esperienza africano-americana e quindi la cultura africano-americana si esprimevano. Fornì anche lo sfondo sul quale l’esperienza africano-americana poteva essere misurata e giudicata. Si trattava, nei termini di Bourdieu, dell’habitus africano-americano, delle pratiche irriflessive e le cornici categoriali che erano cresciute dalla cultura africano-americana e che al contempo le circoscrivevano. Allontanarsi troppo da questo habitus era diventare bianchi, era perdere il contatto con le proprie radici, da dove tutto era nato. Se si aveva successo nel mondo bianco, era importante essersi formati nel ghetto, per strada, con la gente, e aver camminato «in quel modo» e aver parlato «in quel modo», per dimostrare di essere ancora un africano-americano «dentro», dove e quando contava. Si trattava di interpretare e avvertire la negritudine e le tradizioni africano-americane in un modo molto diverso sia dalla cultura bianca sia da quei «Negroes» che proponevano l’integrazione o la mobilità sociale come risposta ai conflitti razziali degli Stati Uniti: da quella prospettiva, la cultura popolare, o di strada, era qualcosa da superare, una “cultura della povertà” da cui allontanarsi attraverso l’istruzione, l’apprendimento di un inglese corretto, il cambiamento delle maniere e dei modi dall’abbigliamento al colore e alla consistenza dei capelli. La divisione era netta fra chi enfatizzava la separazione e chi l’integrazione, fra chi credeva nella unicità solitaria dell’identità africano-americana e chi nell’universalità di essa.
Per gli attivisti del Potere Nero la prassi cognitiva del movimento implicava modificare i parametri attraverso i quali il mondo veniva interpretato e secondo i quali tutto ciò che era bianco appariva superiore e tutto ciò che era africano-americano appariva inferiore. Attraverso la sua azione dimostrativa, dalla musica alle forme più violente di resistenza, il movimento del Black Power cercò di riqualificare l’esperienza africano-americana. Gli africano-americani dovevano voler essere sé stessi, non dovevano emulare i bianchi, dovevano essere orgogliosi del proprio vernacolo, dei propri capelli, del proprio corpo e “do their own thing”. La musica era al centro di questo processo e di questa strategia. Il soul, il funk e, ai giorni nostri, il rap e l’hip hop sono emersi per esprimere queste manifestazioni più variegate della coscienza africano-americana. Trascendendo il mezzo dell’intrattenimento, la musica soul provvedeva a un rituale nel canto con il quale gli africano-americani potevano identificarsi e attraverso il quale potevano trasmettere importanti simboli di gruppo. La musica era Potere ed era considerata estremamente rilevante per “la lunga lotta dei neri per la liberazione”.
Il consumo collettivo di soul music è stato collegato a una serie di rappresentazioni simboliche della blackness che venivano definite come “soul style”: meccanismi di autenticazione che si manifestavano in aspetti estetici come l’abbigliamento, l’acconciatura dei capelli, il linguaggio, i passi di danza specifici e certi gesti fisici («soul handshakes»). Il ruolo della musica soul nella lotta per la liberazione dei neri divenne anche il tema di intensi dibattiti tra le varie fazioni del movimento ideologicamente diverse. Seguendo gli insegnamenti di Malcolm X, nazionalisti rivoluzionari, nazionalisti culturali e afrocentristi concordavano sulla necessità di liberare gli africano-americani dai degradanti effetti psicologici del razzismo bianco, ma non erano d’accordo sull’importanza della cultura nera in questa lotta. Come fa notare Matti Steinitz in «Calling out around the world»: how soul music transnationalized the African American freedom struggle in the black power era (1965–1975) dal volume Sonic Politics (Music and Social Movements in the Americas) curato da Olaf Kaltmeier & Wilfried Raussert, Maulana Ron Karengae la sua organizzazione afrocentrica statunitense avevano liquidato la cultura nera americana come svalutata dal contatto con la società bianca e aveva propagandato il ritorno a una cultura africana mitizzata. Fondatore US Organization a Loa Angeles, Karenga aveva insegnato ai suoi seguaci a rifuggire l’assimilazione dei velenosi valori euro-americani e ad abbracciare invece le tradizioni condivise del lontano passato. Aveva ideato e predicato gli Nguzo Saba, sette principî che si supponeva fossero comuni a varie culture africanee che includevano l’unità, l’autodeterminazione, il lavoro e la responsabilità collettivi, l’economia cooperativa, lo scopo, la creatività e la fede. Karenga incoraggiava l’abbigliamento africano e le acconciature naturali, istituì l’educazione linguistica in swahili oltre a istituire la celebrazione di Kwanzaa come alternativa di ispirazione africana al Natale. In questo modo, egli cercava di fornire agli africano-americani gli strumenti per definirsi come popolo con un’eredità comune, separata e uguale all’America bianca.
I nazionalisti culturali (come Amiri Baraka, Nikki Giovanni, Haki Madhubuti, Ed Bullins, A. B. Spellman, Sonia Sanchez, Ishmael Reed, Addison Gayle, Jr., Hoyt Fuller, William Walker e AfriCobra) rappresentati dal Black Arts Movement (BAM) avevano inizialmente abbracciato il free jazz come “la più nera delle arti”, alla ricerca di una Black Aesthetic e di autentici elementi africani nella musica africano-americana. Come scriveva Nikki Giovanni, la bellezza caratterizzava gli africano-americani:
«I wanta say just gotta say something, bout those beautiful beautiful beautiful outasight black men with they afros…»

