// di Irma Sanders //
Oliver Nelson – «Meet Oliver Nelson», 1959
Vita breve, ma intensa, Oliver Nelson muore a soli 43 anni, lasciando ai posteri, sia come band leader che come gregario, una lunga discografia, tra cui un indiscusso capolavoro, annoverato da molti critici tra i 100 dischi più importanti della storia del jazz moderno; parliamo dell’album «The Blues And The Abstract Truth» del 1961 dato alle stampe dalla Impulse! Records, contenente la celeberrima «Stolen Moments», in seguito diventa uno standard. Per per apprezzarne, però, i talenti, bisogna partire dall’inizio: «Meet Oliver Nelson» è il primo album da leader di Nelson, pubblicato dalla New Jazz Records nel 1959. Il disco fu registrato il 30 ottobre di quell’anno al Rudy Van Gelder Studio. L’esordio di Nelson come band-leader appare immediatamente convincente: quattro brani su sei, tra quelli contenuti nell’album, sono composti da lui; il tratto molto distintivo come sassofonista tenore e l’abilità organizzativa, ne fanno immediatamente un leader di carattere a soli di 27 anni. Ottimo e di buona esperienza il quintetto che partecipò al set: Nelson scelse un veterano della tromba come Kenny Dorham, che all’interno delle varie tracce diventa talvolta il suo contraltare, altre volte un sostegno o un valido compagno di giochi per gli scambi e taluni botta e risposta estremamente fluidi e piacevoli. Siamo sul piano inclinato di un ottimo hard-bop, dove diventano essenziale il lavoro di sponda del pianista Ray Bryant ed il costante effluvio ritmico riversato dal bassista Wendell Marshall e dal batterista Art Taylor. A parte il lavoro estremamente sincrono effettuato sulle quattro tracce originali, ottima risulta la revisione di due ballate standard, quali «Passion Flower» e «What’s New». Questo fu solo, per alcuni aspetti, l’inatteso ed impressionante inizio di una carriera breve ma assai produttiva, offrendo una dimostrazione lampante delle capacità gestionali di Nelson al sax tenore e dei molti talenti compositivi. «Meet Oliver Nelson» è un invito ad un ascolto ricercato, rivolto specie ai profani, agli scettici o ai neofiti sempre alla ricerca dell’abecedario della solita Blue Note, con il suggerimento di andare oltre, perché a volte c’è tanto di più.
Arnett Cobb With Eddie «Lockjaw» Davis & «Wild Bill Davis - «Go Power!!!» , 1959
Un disco sparito dai radar della grande diffusione, spesso non considerato, eppure possiede una geometria musicale estremamente flessibile ed originale ed un’aggressività fonica non comune. «Go Power!!!» di Arnett Cobb e compagni, precedentemente pubblicato come «Blow Arnett Blow», offre una possibilità d’ascolto che travalica i limiti del jazz mainstrem di quel periodo. È un album, forse inconsapevolmente innovativo che guarda in avanti, ma non rientra nelle avanguardie, operando un’espansione espressiva del linguaggio hard-bop, soprattutto ne amplia lo spettro e lo proietta verso una forma non ancora praticata in maniera diffusa, ma lo fa attraverso una forma mentis ed una costruzione armonica che, al primo impatto, potrebbe apparire tradizionale. Arnettt Cobb era un sassofonista di vecchia scuola, con una lunga militanza nelle big band, ma dal 1956, nonostante i problemi di salute causati da un incidente automobilistico, era tornato in attività con delle piccole formazioni. La critica americana lo aveva definito «Wild man of the tenor sax», considerandolo il più selvaggio sassofonista della storia del jazz, per via del suo mordente, per la sua mascolina aggressività sonorità e per il swing trascinante che riusciva a tirare fuori dal sax. Maestro dello strumento, era foriero di un sound molto vicino al rhythm and blues, sempre corposo e muscolare. La chiave di lettura di questo album, registrato per la Prestige al Rudy Van Gelder Studio, è da ricercare, però, nella presenza di Eddie «Lockjaw» Davis, sassofonista tenore, naturalmente irrequieto, capace di escursioni oblique ed atonali, talvolta dissonanti, incline alle innovazioni dei linguaggi jazzistici al pari di sperimentatori come John Coltrane o Ornette Coleman. Oltre a Cobb e Lockjaw al sax tenore, furono della partita George Duvivier al basso, l’organista Wild Bill Davis ed il batterista Arthur Edgehill. «Go Power!!!» è un album che progressivamente rompe la narrazione convenzionale attraverso un flusso ipercinetico, apparentemente logico ed ordinato, ma trascinato da un fiume carsico di suoni che emergono in superficie come un torrente in piena. Una reattiva sezione ritmica dalle retroguardia stende un tappeto nodoso, policromo ed intricato, su cui i due sassofoni si liberano, rotolando senza freni inibitori. L’organo, a volte arcano e claustrale, quando picchia sodo, aggiunge sudore acido alla complessità emotiva della musica. Alcuni brani sembrano bypassare l’ordine tonale, ma il tasso melodico, sempre alto e accattivante, fa in modo che la puntina del disco e la mente del fruitore non escano dal solco.


Pepper Adams – «Pure Pepper», 1958
Registrato il 19 novembre del 1957 al Van Gelder Studio e pubblicato in origine con il titolo «The Cool Sound Of Pepper Adams» nel gennaio del 1958 dalla Regent Records, questo disco era scomparso dai radar a causa dell’iper-affollamento di quel periodo. Fortunatamente venne ripreso dalla Savoy records del 1984, con un lavoro di remastering eccellente ed ampliato con una traccia aggiuntiva, soprattutto venne dato nuovamente alle stampe con la denominazione di «Pure Pepper». Il baritonista guida uno dei suoi primi set come band-leader e si mostra in uno stato di grazia, esprimendo, su uno strumento non facile, una creatività ed una duttilità da manuale del jazz. Anche l’insolito line-up in cui compare Bernard McKinney con l’eufonio, flicorno basso, (in Italia detto anche bombardino, particolare strumento a fiato, tipico delle bande), favorisce il suo percorso sonoro, tra dilatate atmosfere cool ed impennate swing. Al suo fianco anche il pianista Hank Jones, il bassista George Duvivier e il batterista Elvin Jones. L’inusuale front-line si stringe attorno ad Adams, che fa scintillare il suo grosso strumento, portandolo su una gamma di registri assai variegati e mutevoli. Solo l’iniziale «Bloos, Blooze, Blues» della durata di oltre dieci minuti vale il prezzo della corsa. «Pure Pepper» è un album che potrebbe fare la felicità dei neofiti e di quanti non amano dal jazz compiti troppo difficili da sbrogliare. Eccellente la qualità del vinile nell’edizione Savoy del 1984.
Coleman Howkins – «Coleman Howkins And His Confrères», 1958
Hawk è noto per la sua generosità, avendo partecipato ad innumerevoli set su richiesta dei maggiorenti delle varie etichette discografiche, di certo non per puro diletto. Molti di queste sedute sono state spesso organizzate da lui stesso, disseminando una sterminata discografia, che talvolta potrebbe risultare ripetitiva e fuorviante per l’ascoltatore del fine settimana, per il neofita o per il collezionista. In molti album di Coleman Howkins, pur suonati sempre con sapienza, l’incoerenza musicale regna sovrana; spesso si gioisce dell’immenso talento del leone del tenore, ma si prova un certo smarrimento per la mancanza di coesione e di organicità fra i vari elementi che costituiscono l’insieme. «Coleman Howkins And His Confrères», pur essendo sfuggito spesso ai radar della torre di controllo del jazz, è un album impeccabile nella quadratura del cerchio sonoro, dove l’allineamento del team dei musicisti è perfetto, soprattutto gli inventori del termine mainstream non avrebbero potuto trovare aggettivo più calzante. Tutti i partecipanti a questa sessione appaiono inconsciamente consapevoli del valore del termine «jazz mainstream», anzi sembra che lo sapessero a prescindere, e forse ancor prima che venisse coniato, soprattutto lo comunicano istintivamente: Coleman Hawkins sax tenore, Roy Eldridge e Buck Clayton tromba, Hank Jones pianoforte, George Duvivier e Ray Brown basso e Mickey Sheen batteria. Coleman Hawkins soffia nell’ancia con eloquenza, coraggio, sicurezza, distillando emozioni a raffica. Roy Eldridge, come al solito, si muove sul piano inclinato di una gorgogliante eccitazione, fornendo brillantezza ed esuberanza ad ogni sua uscita, dal canto suo, l’omologo Buck Clayton gioca sull’immaginazione e l’imprevedibilità, dando una forma distinta a ciascuno dei suoi assoli, ma sempre con buon gusto e pertinenza. Hank Jones si mostra versatile e fluente, esprimendo la tempra di un musicista completo, in grado di arricchire, colmare e addolcire, con la forza del suo lirismo, le infuocate progressioni di Hawk e dei due trombettisti gregari. La sezione ritmica si fonde costantemente in un paritetico rapporto con i tre front-men. Tra i momenti migliori sono da segnalare «Nabob», che da da solo vale il prezzo dell’intera corsa, dove tutti i sodali sembrano guidati da una forza telepatica; «Maria», un’intrigante blues mid-range dal sapore antico, ma imperniato su una melodia che s’innesta subito nelle meningi; «Hanid», dal sapore quasi cinematografico, con un ottimo contrappunto trombettistico; non ultima la flessuosa ballata «Honey Flower», giocata su un piacevole battibecco dal soffio delicato fra tromba e sax, magnificato dal ricamo di Hank Jones al piano. Registrato tra Los Angeles e New York, il 16 ottobre 1957 ed il 7 febbraio 1958, «Coleman Howkins And His Confrères» è un sano esempio di jazz ordinato, non complicato o nevrotico, sviluppato su un ottimo terreno blues e swing.

