// di Irma Sanders //
McBride / Payton / Whitfield – «Fingerpainting: The Music Of Herbie Hancock», 1997
Questo è uno di quegli album tristemente ignorato dalle cronache jazz e quasi scomparso dai radar, ma a torto. Si tratta, in realtà, di un piccolo gioiello di jazz mainstream, che nasce da un omaggio piuttosto insolito a Herbie Hancock. La filosofia del progetto si muove su un livello qualitativo notevole e per nulla calligrafico: non esiste la sia pur minima intenzione di scimmiottare il pianista tributario, soprattutto non c’è possibilità di ricalco, poiché nel set manca un pianoforte, quindi nessuno che tenti di suonare come Hancock o di misurarsi con il suo stile; per contro, le sue composizioni sono state scelte come piccoli classici del jazz mondiale, evitando accuratamente alcuni dei pezzi più noti e scontati come «Watermelon Man» e «Maiden Voyage». Desueto anche il line-up, privo di batteria, costituito da un trio all-star, ossia il bassista Christian McBride, il trombettista Nicholas Payton e il chitarrista Mark Whitfield, i quali scavano con viva intelligenza nel vasto repertorio del pianista. Le quattordici composizioni di Hancock eseguite risalgono ad un periodo compreso fra 1962 ed 1979, con l’aggiunta di un tema del 1985. Tra i brani meno noti ci sono proprio alcuni di quelli meglio interpretati come la title-track e «Sly» e due melodie tratte dalla colonna sonora del film «Blow Up» del 1965. Eccellente la rivisitazione di «Driftin’», dove Payton, suona in odor di Freddie Hubbard e con eguale abilità, emettendo un tono caldo ed uno stile inventivo. Whitfield, dal canto suo, con maestoso virtuosismo, funge da collante, sia che suoni come solista, che in fase di accompagnamento, aggiungendo qualche scaglia di funk soprattutto a «Chameleon» e «Sly», mentre McBride mostra la sua tempra in tutto e per tutto, sostenendo ed arricchendo gli scambi dei due sodali. I tre musicisti lavorano in maniera quasi telepatica, ritagliandosi esuberanti ed originali assoli, per poi fondersi in un tutt’uno. La strumentazione non proprio canonica (tromba, chitarra e basso) favorisce lo sviluppo di vari duetti, attraverso ognuna delle tre possibili combinazioni. «Fingerpainting: The Music Of Herbie Hancock» è forse uno degli album-tributo più belli e raffinati della storia dal jazz moderno, unico nel suono, che richiederà solo un paio di ascolti, prima di farvi innamorare. I fanatici di Hancock scopriranno nuove melodie o comunque melodie quasi reinventate in profondità e in ampiezza. Consigliato soprattutto ai jazzofili dal palato fine. Disponibile solo in CD.
Hal Galper – «Now Hear This», 1977
Hal Galper è stato per lungo tempo sottovalutato come compositore e pianista, eppure, nel suo palma-res ci sono collaborazioni con artisti della caratura di Cannonball Adderley, Nat Adderley, Franco Ambrosetti, Chet Baker, Phil Woods, John Scofield, Sam Rivers e molti altri. In questa edizione ENJA del 1977, di superlativa qualità audiofila, raggiunge un livello elevato sia come compositore che strumentista, dirigendo un efficace quartetto completato dal trombettista Terumasa Hino, dal bassista Cecil McBee e dal batterista Tony Williams. L’album si apre con un fragoroso ed inventivo veicolo post-bop, «Now Hear This», dove ognuno dei comprimari apporta un contributo creativo a quello che può essere considerato il pezzo guida. La prima traccia crea aspettative così alte che ci si attenderebbe una delusione, almeno un calo di tensione nei solchi successivi, ma non è così. Il disco mantiene una temperatura costante ed una tonicità fortemente espressiva per tutta la durata, prediligendo le dinamiche dell’hard-bop, già in fase di migrazione post, ma molto controllato e leggero nell’equipaggiamento armonico, sia pure con movimenti atonali e obliqui. Galper eccelle soprattutto in una lussureggiante ballata «Shadow Waltz», oltre che nei suoi superbi originali, «Mr. Fixit», «First Song In The day» e «Red Eye Special», aggiungendo un tono scherzoso e disincantato, ma senza irriverenza, al classico «Bemsha Swing» dei Thelonious Monk. Un disco che non dovrebbe mancare in qualunque collezione jazz che si rispetti.


McCoy Tyner – «Dimensions», 1983
A volte sembrerebbe che McCoy Tyner abbia vissuto almeno due vite: una prima legata indissolubilmente al periodo più fertile di Coltrane, a cui resta inequivocabilmente legato ed una seconda vita da solista e band-leader in cui ha prodotto lavori straordinari, ma che spesso viene offuscata dal ricordo che molti hanno dell’era coltraniana per antonomasia: il famoso quartetto delle meraviglie. La discografia di McCoy Tyner post-Coltrane è ricca, articolata e comprende anche dei capolavori riconosciuti a livello planetario, ma spesso taluni frammenti «minori», si fa per dire, servono a comporre il puzzle della carriera di colui che rimane senz’altro uno dei pianisti più rappresentativi del jazz moderno. Registrato nell’ottobre del 1983 a New York per la Elektra Musician, l’album finì presto fuori catalogo a causa delle rovinose vicende di suddetta label, eppure trattasi di una sessione di tutto rispetto magnificata da un line-up di eccellenti musicisti: oltre a Tyner al piano, furono della partita il contralto Gary Bartz, il violinista John Blake, John Lee al basso elettrico ed il batterista Wilby Fletcher. «Dimensions» potrebbe essere definito un album di transizione, a metà strada tra gli esplorativi lavori per la Milestone ed il successivo repertorio che segnerà quasi un ritorno alla tradizione. Il disco apre uno scenario musicale avvolgente e con ottimi spunti melodici, lontano dal post-bop di maniera e con qualche tentazione fusion, ma imperniato su una scorrevole piattaforma di jazz modale ed R&B a presa rapida. Nella track-list sono presenti due standard di Duke Ellingnton «Prelude To A Kiss» e «Just In Time», in cui Tyner si produce in un delizioso stile stride, non comune nelle sue canoniche esecuzioni; un omaggio di Gary Bartz a Thelonious Monk con «Uncle Bubba», giocato sulla dissonanza, unitamente ad un originale a testa firmato da Tyner, «One For Dea», sicuramente il climax dell’intero album, «Precious One» di John Blake e «Understanding» di John Lee, componimenti molto più fedeli al modalismo tyneriano. Il violino elettrico di Blake (idea vincente) aggiunge un tocco di freschezza senza diventare debordante ed ossessivo. Pur essendo «Dimensions», un album quasi sfuggito al controllo dei radar resta il frutto di uno dei migliori line-up al seguito di Tyner nel dopo Coltrane.
David «Fathead» Newman – «I Remember Brother Ray», 2004
Dopo aver suonato una di queste melodie al funerale di Ray Charles, il sassofono tenore David «Fathead» Newman ha cominciato ad essere avvolto da un alone di santità. Newman aveva conosciuto Charles nel 1952 divenendo membro attivo e permanente della sua band dal 1954-1964, periodo di massima penetrazione espressiva del «genio». Nessuno più di lui possedeva titoli ed onorificenze per poter realizzare un album di ballate jazz tratte dal classico repertorio di Brother Ray. Un’ottima rilettura per sax tenore, ma senza gli orpelli, i ghirigori e le ridondanze tipiche dello smooth -jazz o del bop-finger-pop con l’aggiunta di flauti, soprani e violini. Siamo nel 2004, ma questo avrebbe potuto essere un album del 1964 della Blue Note, fatto di ballate soul-blues e di rapide impennate hard-bop. Come pretesto la scelta di alcuni standard scelti dal repertorio di «The Genius», ma calati in atmosfera autenticamente jazz, con un sax tenore che scava fino all’anima, senza forzature o celebrazioni, conscio che i brani stessi gli avrebbero fornito tutta la magia e la forza ispiratrice necessaria. L’etichetta newyorkese High Note Records scelse anche lo Studio Van Gelder per creare una certa atmosfera ed offrire ai musicisti lo scenario più adatto per il set. Il sassofonista tenore si avvale della complicità del vibrafonista Steve Nelson, di John Hicks al pianoforte del bassista John Menegon e di Winard Harper alla batteria. L’anima sudista di Newman è portatrice di un forte calore che si percepisce dall’ascolto ogni singola nota: a volte tenero e burroso, altre deciso e lineare. Dal coro di apertura di “Hit the Road, Jack”, si percepisce immediatamente il controllo che Newman detiene su questi brani. Li tratta come classici, anche se molto familiari. Li esegue con rispetto, semplificandoli e ravvivandoli, nonostante la ricchezza degli arrangiamenti e la raffinatezza delle performance. La rilettura di «Georgia On My Mind», che da sola vale il prezzo della corsa, si trasforma una reinvenzione tematica grazie agli assoli di Nelson e Hicks, diventando quasi un case-study, così come il groove mid-range di «Deed I Do», dove la progressione melodica di Newman sembra riecheggiare il cantato originale. Da segnalare anche «Them That Got (I Ain’t Got You)», un’ampia e avvincente escursione sotto il marchio gospel-soul del «Genio» trapiantato in un terreno di coltura bop. David «Fathead» Newman vince su tutta la linea consegnando ai posteri un album memorabile, che, sia pur registrato il 14 agosto del 2004, emana il profumo del grande jazz mainstream degli anni ’60.


Eddie Harris – «Long Play Collection», 2020
Parliamo di un doppio vinile che contiene tre album completi e rimasterizzati di Eddie Harris, diversamente difficili da trovare. Quando Harris fece il suo debutto con l’etichetta Vee Jay venne annunciato come un grande innovatore: nato a Chicago, dimostrò di essere un talento eclettico e multi-tasking anche sulla scena newyorkese. Tutti i dischi appartenenti alla prima fase della della carriera di Eddie Harris possono essere classificate come opere di tutto rispetto, pur non avendo cambiato la storia del jazz moderno, ma soprattutto catturano la magnificenza di un sax tenore dall’intonazione e dall’espressione unica, lontano a volte da taluni stereotipi che furoreggiavano in quegli anni. Le composizioni più conosciute di Harris sono «Freedom Jazz Dance» e «Listen Here», ma fu «Exodus» che gli portò un cospicuo successo di pubblico e di critica, anche se non tutta. «Exodus to Jazz» (uno dei tre set contenuti nel doppio in oggetto), nel 1961, fu il primo album della Vee Jay ad essere certificato come disco doro: gli introiti di «Exodus» superarono il milione di dollari, con due milioni di copie vendute; in quegli anni fu una cifra sbalorditiva e senza precedenti per un artista jazz, tanto che molti critici boriosi e pretenziosi ne denigrarono il successo commerciale, considerandolo riduttivo. A detta di alcuni osservatori pretenziosi ed intellettualoidi, il fascino che un disco come «Exodus» esercitava sulle masse, addirittura, minacciava l’essenza stessa del jazz. Un giudizio simile veniva spesso riservato a molte produzioni soul-jazz ritenute troppo popolari e proletarie, Qualcuno scrisse che l’album fosse «antitetico alla storia ed al mecenatismo del jazz». Tutto ciò mentre etichette come la Blue Note immettevano sul mercato successi a presa rapida e pronto-cuoci. Siamo nel 1961 e la critica guardava con molta benevolenza all’élite degli avanguardisti e meno a quanti perpetuavano la tradizione, sia pure con intelligenza e lungimiranza, cercando di far affluire il jazz verso un pubblico sempre più vasto. Al netto di ogni considerazione, «Exodus To Jazz» e «Mighty Like A Rose» rimangono album acustici esemplari che mostrano le capacità di Harris sia come sassofonista che in qualità di arrangiatore, in particolare per l’adattamento di temi provenienti da film come «Exodus» e «Spartacus». Il doppio vinile unisce entrambi gli album a «Jazz For Breakfast At Tiffany’s» per un totale di ventisei brani dove, tra gli otto originali, sei sono composti da Harris e due da Willie Pickens, il pianista che lo accompagna proprio nell’album «Exodus To Jazz». Tra i tanti temi eseguiti sono da segnalare il classico «Exodus», la dolcissima «Alicia», la swingante «Mighty Like A Rose», la solenne «God Bless The Child», la poetica «Fontessa», una rilassata «Willow Weep For Me», ed una coinvolgente «There Is No Time». In totale tre album che racchiudono in nucleo vitale di un artista, spesso sfuggito al controllo dei radar, la cui musica supera la prova del tempo, conservando un posto di tutto rispetto negli annali del jazz.
