// di Francesco Cataldo Verrina //

Partiamo da una considerazione: Massimo Troisi, con la sua geniale ironia, sosteneva che se azzecchi un bel titolo, il film sarà sicuramente un successo, altrimenti per avere successo ti tocca fare realmente un bel film. Il primo lavoro da solista di Giuseppe Magagnino, «My Inner Child», edito dalla GleAM Records, oltre ad avere un bel titolo è anche un ottimo disco, ricco di tante sfumature poetiche, sonore ed esistenziali: se il titolo fa riflettere, il costrutto sonoro ancora di più. Oggi è molto importante uscire dalla forma mentis di un fruizione epidermica, finalizzata al solo piacere superficiale ed aurale e scavare in profondità negli abissi più reconditi della psiche umana. Specie quando si tratta di un progetto legato al jazz, le variabili devono essere almeno due: la componente musicale, che diviene condicio sine qua non, e la parte esistenziale che da essa deve scaturire, come se i musicisti raccontassero attraverso le note storie di vita vissuta, mancata, sognata o agognata.

«My Inner Child» è un viaggio che l’autore compie a ritroso nel tempo precipitando nei luoghi dell’infanzia, particolare momento della vita dove tutto assume le sembianze di un gioco infinito ed i confini spazio-temporali appaiono indefiniti e dilatati. Senza scomodare psicologi e studiosi della mente umana, portiamo a corredo del nostro discorso il ricordo di un grande artista, forse unico, Thelonious Monk, per il quale la composizione e l’atto stesso dell’esecuzione diventavano un sorta di parco giochi, dove i vincoli con la pesantezza dell’essere venivano spezzati, mentre quel luogo ideale, l’infanzia ritrovata, si trasformava per incanto nel regno del bambino con i suoi balocchi e in un microcosmo libero da ogni costrizione o condizionamento. «My Inner Child», diventa, dunque, un’esortazione a stabilire più spesso un contatto, specie in età adulta, con quella creatura innocente che alberga in ognuno di noi e che Magagnino chiama «bambino interiore». Una figura retorica che corrisponde al «fanciullino» di pascolina memoria, grazie al quale il poeta coglie l’autenticità del vivere e del sentire, libera il campo da tutte le sovrastrutture che la ingombrano restituendo all’uomo se stesso.

Come in Pascoli il bello estetico ed il bello morale si identificano, con «My Inner Child» il pianista riflette intimamente sull’approccio giocoso alla musica e allo strumento, lasciando ad intendere che la maturità e l’attività professionistica, fitta di aspettative e le tensioni, «sporcano» lo slancio e l’innocenza delle prime esperienze. Giovanni Pascoli definisce il fanciullo «musico» perché è in grado di cogliere l’armonia ed il fluire delle cose non con la ragione ma con la forza dei sentimenti primordiali.

Il costrutto sonoro del pianista Giuseppe Magagnino, accompagnato da Luca Alemanno al basso e da Karl-Henrik Ousbäck alla batteria, si muove in perfetto equilibrio tra ragione e sentimento, fra suggestioni proventi dalla tradizione afro-americana e nord-europea, senza tralasciare gli influssi positivi delle melodie italiane. Magagnino e soci esplorano tutte le potenzialità del piano trio (due brani sono eseguiti in solitaria), tentando una summa degli ultimi settant’anni di pianismo jazz; nello specifico l’autore ci tiene a precisare che le composizioni presenti nel disco sono autobiografiche, nate di getto e in maniera sorgiva, tanto che il musicista salentino ha scelto di non intervenire con un eccessivo lavoro di affinamento e di scrittura, rispettandone l’autenticità. Proprio come avrebbe fatto un bambino.

L’opener è affidato a «Mi Vida, che si divide tra Africa, Mediterraneo ed Europa, con variazioni ritmico armoniche che spaziano dall’afro-beat al jazz-waltz, dove il pathos interiore della prima parte lascia posto ad una melodia ariosa e cantabile, magnificata da uno splendido interplay tra piano e basso. Déjà Vu», il cui titolo per esteso è «New Sensations Of A Life Never Lived», nasce da una sensazione percepita dal pianista durante un viaggio a Budapest, nello specifico nel corso di una passeggiata nel centro della città. La struttura accordale dell’impianto sonoro fa da sfondo ad una ballata piacevolmente malinconica attraverso un intreccio di elementi tonali e modali, che creano un effetto quasi tridimensionale. «A Long Journey», di certo uno dei punti salienti dell’intero lavoro, è la rappresentazione in musica, quasi madrigalistica del senso della vita, la quale appare come un’immagine pittorica sottesa da luci ed ombre, penombre e chiaro-scuri. Le note del piano zampillano come onde, attraverso un movimento, a tratti ostinato, come a voler descrivere il moto perpetuo della vita, mentre i due sodali amplificano egregiamente la sensibilità ed il ricercato linguaggio sonoro del band-leader.

A questo punto il pianista si concede una fuga in solitaria con «Dancing With Shadows», una rivisitazione jazzistica del valzer per pianoforte in tonalità maggiore. Una ballata dall’afflato crepuscolare e nostalgico, un’idea esecutiva suggerita a Magagnino dalla visione onirica di folletti che si burlano delle sue paure danzando nella penombra di casa sulle note di questo brano. La title-track, «My Inner Child», nata da una conversazione telefonica durante il loockdown del 2020, inneggia al desiderio di tornare a divertirsi facendo musica in maniera fanciullesca. Il substrato sonoro si affida ad un ritmo vagamente latino, magnificato da un melisma vocale che abbellisce il costrutto melodico rendendolo immediato e cantabile. «Conversando con George», descrive una conversazione musicale immaginaria, molto animata ed appassionata, tra magagnino e Gershwin. L’ipotetico colloquio si snoda su un vivace swing, che offre un ottimo palcoscenico anche alla retroguardia ritmica. «Nelle tue Mani», ispirato alle mani di Chiara, la compagna di vita del compositore, si materializza come una morbida ballata mid-range che richiama le atmosfere tipiche del jazz europeo, arricchite da contrafforti blues nella parte improvvisativa. La straripante progressione della batteria con riverberi ed effetti vari diventa un momento di liberazione collettiva.

A suggello dell’album, il secondo e ultimo episodio in piano solo, «I Loves You, Porgy» di George Gershwin, unico standard incluso nella track-list, restituito al mondo degli uomini dal pianista salentino attraverso un modulo espressivo molto jarrettiano. «My Inner Child» di Giuseppe Magagnino è un album ricco di poesia, concepito con la spontaneità di un fanciullo, ma realizzato con mano ferma e lungimiranza da un maturo professionista del piano jazz.

MAGagnino Trio