// di Bounty Miller //
I veri cultori della black-music amano ricordarli soprattutto per un gioiellino di funk-dance completamente strumentale «Machine Gun» del 1974, o altri infuocati prototipi di sound urbano funkified, quali «Slippery When Wet» o «The Bump» del 1975, ed a seguire «Fancy Dancer» o «Too Hot Ta Trot». In particolare «Machine Gun», brano di punta del loro album di debutto, divenne un inno per molti eventi sportivi americani ed incluso nella colonna sonora di alcuni film, tra i quali «Boogie Nights» e «Looking for Mr. Goodbar». Va anche detto che i Commodores, senza badare a spese, hanno regalato agli innamorati frequentatori delle discoteche di fine anni ’70, tonnellate di melassa. Al momento degli slow, per intenderci, quando il DJ passava i lenti, non mancavano mai i classici «Easy», «Three Times A Lady», «Sail On» ed altri. Fu questa la principale caratteristica dei Commodores, ossia il saper alternare delle roventi schegge di funk indemoniato a delle vere chicche di soul-pop romantico ed iperglicemico. Una dicotomia produttiva che gli permise di conquistare immediatamente anche il pubblico bianco, solitamente ostico alle ruvide incursioni funky, che avevano caratterizzato gli album pubblicati tra il ’74 ed il ’76, «Caught in Act», «Movin ‘ On», «Hot On The Tracks». Essi furono tra i primi gruppi di colore a strutturarsi come una vera band, oltrepassando il concetto di semplice ensemble vocale di derivazione doo-wop, che fino ai primi anni ’70 aveva dilagato nei circuiti della musica di derivazione R&B.
I Commodores, famosi presso le umane genti di ogni contrada per le loro ballate romantiche, indotte dall’indole romantica di Lionel Richie, in realtà furono latori del funk più duro e aggressivo di quegli anni, tanto che un periodico americano li definì come «la risposta nera all’heavy metal bianco». Lo stesso Renzo Arbore in su libro definiva il funk come il rock dei neri. A brani dal ritmo incandescente, come già detto, la formazione alternava eleganti e romantiche canzoni strappacuore, come dimostrano la succitata «Easy», «Sail On», «Still» e la pluridecorata «Nightshift» (tributo a Marvin Gaye e Jackie Wilson), di recente ripresa da Bruce Springsteen per il suo doppio album di cover. Nel 1971, il gruppo firmò un contratto con la Motown Records, con la quale incise un primo album di enorme successo, inanellando una lunga catena di hits destinate ai quartieri alti delle classifiche. Nel 1982, il cantante e pianista Lionel Richie, dopo alcune divergenze, abbandonò la band per intraprendere un cammino da solista in una dimensione sonora più morbida e confidenziale, che lo porterà presto sul tetto del mondo. Lionel per lungo tempo è stato uno dei personaggi più influenti e pagati dello star system, rappresentante di quell’alta borghesia di colore capace di ammaliare anche il pubblico dell’airplay radiofonico, attraverso un’infinita produzione di avvolgenti canzoni soul-pop a presa rapida. L’addio di Richie avrebbe potuto essere un colpo fatale e decisivo per qualunque gruppo caratterizzato da un certo timbro vocale ma non per i Commodores non fu così, disposti a rimboccarsi le maniche ed a cercare un’alternativa: morto un papa se ne fece un altro. Troppo proficua e gloriosa la storia che essi si portavano dietro, locupletata da un ricco palma res di riconoscimenti. A conti fatti, sia per i Commodores che per la Motown sarebbe stato alquanto azzardato il dover rinunciare ad un marchio vincente ed apprezzato in ogni sperduta landa del Pianeta Terra, specie in quello scorcio di anni Ottanta in cui la black music si era affrancata dal segregazionismo delle classifiche di settore e veniva riconosciuta universalmente. I neri finalmente partecipavano al lauto banchetto del sogno americano.




I superstiti si guardarono intorno, selezionando il successore di Lionel fra una cinquantina di candidati. La scelta cadde su J.D. Nicholas, già vocalist dei britannico-giamaicani Heatwave, (autori di alcuni surrogati di soul-funk afro-americano come la celeberrima «Boogie NIths»), i quali avevano fatto da spalla ai Commodores nel tour europeo dell’anno precedente. Con lui si ricostituì la formula della doppia leadership vocale (l’altra voce, con Lionel Richie, era sempre stata quella di Walter Clyde Orange) che costituiva uno dei marchi di fabbrica, nonché il contrassegno saliente della band. Il risultato diede loro ragione: i Commodores tornarono in studio per registrare «13», tredicesimo album per l’etichetta di Detroit, che raggiunse senza fatica i quartieri alti delle charts americane e di molti paesi di lingua inglese, ma ancor più efficace e penetrante risultò, due anni dopo, «Nightshift», portatore in casa Commodores del primo Grammy e di una carrettata di dischi di platino. La classica formula alchemica del gruppo aveva superato la prova e vinto la scommessa, alternando pietanze a fuoco lento ed escursioni sonore dal nerboruto carattere funkiness.
Una sfida cominciata parecchi anni prima, nel 1968, quando i Commodores si formarono con il nome di Mystics in un college dell’Alabama. Oltre a Lionel Richie (sassofono, pianoforte e voce) e Walter Orange (batteria), leader storici, furono della partita anche William King (tromba), Thomas McClary (chitarra elettrica), Ronald LaPread (basso elettrico), e Milan Williams (tastiera). La svolta avvenne quando si accorse di loro Berry Gordy jr., leggendario talent scout e presidente della Motown, la principale etichetta di colore degli anni ‘60 e ’70. votata alla causa dell’easy-soul-funk-dance. I Commodores firmarono il contratto con la «Hits Ville» di Detroit nel ’72, facendosi subito notare come gruppo di supporto durante un tour europeo dei Jackson 5. Due anni dopo, entrarono in sala d’incisione per il debutto discografico e la conquista del mercato che, per più di un decennio, li vide campioni d’incassi: per la sola Motown vendettero oltre sessanta milioni di dischi. Alla scadenza del contratto però, forse perché alla ricerca di nuovi stimoli creativi, pensarono di cambiare scuderia, nonostante il planetario successo di «Nightshift». Dopo aver firmato un paio di album per la Polydor, decisero addirittura di mettersi in proprio, divenendo editori in prima persona e gestendo direttamente le produzioni con una loro organizzazione: sia per la rimasterizzazione dei classici vinili destinati al formato digitale, sia per l’emissione di prodotti inediti come il CD «Commodores live» registrato nel tour americano del 1997 (legato anche ad uno special televisivo, disponibile in DVD). I Commodores sono stati una compagine dallo standard produttivo e compositivo non comune, capace di ottenere dei livelli di eccellenza ed estremamente performanti soprattutto in concerto. Durante i live, dal punto di vista tecnico-formale e visino, utilizzavano un modulo espressivo che ricordava l’idea di un grande happening collettivo, facendo ricorso alle stesse regole d’ingaggio dei gruppi rock bianchi con una notevcole potenza di watt, luci ed effetti.
Lionel Richie, dal canto suo, non ha mai sbagliato un colpo. L’album «Can’t Slow Down» del 1983, quello della mitica «All Night Long», risultò essere il 33 giri più venduto della Motown, ricevendo il Grammy Awards quale «migliore album dell’anno». Sull’onda dei riconoscimenti ottenuti, nel 1985, Richie consolidò la sua fama, scrivendo, a scopo benefico insieme a Michael Jackson, la filantropica «We Are The World». Tutti i suoi album hanno ottenuto riconoscimenti di livello internazionali, sia pur dominati da melliflue pop-songs, le quali svelarono a tutti chi fosse il vero portatore sano dell’anima romantica e passionale dei vecchi Commodores.
