// di Gina Ambrosi //

Scott Hamilton, pur essendo uno dei sassofonisti più prolifici della storia del jazz moderno con oltre duecento album come band-leader e collaborazioni a vario titolo, è sempre rimasto lontano dalla cronache jazzistiche e sconosciuto alle masse, se non ad una ristretta schiera di appassionati e di attenti critici musicali. Eppure, potrebbe essere annoverato tra i migliori tenoristi viventi nell’ambito del jazz mainstream, uno dei pochi vessilliferi della tradizione del sax tenore, in linea con lo stile di Ben Webster, Coleman Hawkins, Zoot Sims e Don Byas. Dotato di una costante immaginazionecreativa e di un timbro dolce e levigato, che rimanda spesso a Lester Young, pur avendo assimilato la lezione di John Coltrane come molti della sua generazione, Scott ha sempre continuato a suonare la sua musica prediletta, quella che per prima lo ha introdotto al verbo jazzistico: le ballate, il blues e lo swing.

Scott Hamilton nasce nel 1954 a Providence, Rhode Island. Sin dalla prima infanzia ebbe la fortuna di ascoltare molto jazz grazie alla vasta collezione di dischi di famiglia, il padre era un appassionato di musica che conosceva e frequentava personalmente molti jazzisti importanti della vecchia scena newyorkese. Il giovane Scott si misurò dapprima con la batteria, poi con il pianoforte, quindi l’armonica a bocca, intanto a otto anni aveva iniziato a prendere lezioni di clarinetto (la sua vera formazione musicale) che diventerà presto l’anticamera del sassofono, strumento che Hamilton comincerà a maneggiare intorno ai quattordici anni, poiché attratto dallo stile di Johnny Hodges.

Nel 1976, a ventidue anni, si trasferì a New York e, grazie a Roy Eldridge, con cui aveva suonato un anno prima a Boston, ottenne un ingaggio di sei settimane al Michael’s Pub. Roy gli spianò anche la strada per lavorare con Anita O’Day e Hank Jones. Sulla vecchia scena newyorkese, Scott ebbe modo di imparare da personaggi del calibro di Illinois Jacquet, Vic Dickenson e Jo Jones, ma soprattutto da Eldridge che divenne una specie di mentore e, da quanto racconta lo stesso Hamilton, talvolta molto critico e severo. Nel dicembre dello stesso anno John Bunch procurò a Scott la sua prima registrazione in studio, agevolandone l’ingresso nell’organico di Benny Goodman, con cui collaborerà a fasi alterne fino ai primi anni Ottanta. Nel 1977, Hamilton diede vita al suo primo quartetto, allargato in seguito a quintetto o sestetto a seconda delle esigenze, imbarcandosi così una lunga ed inarrestabile serie di pubblicazioni discografiche, quasi tutte di ottimo livello.

Particolarmente acclamato in Giappone e nei Paesi Scandinavi che, a partire dai primi anni ’80, sembravano gli unici due luoghi adatti e deputati a preservare la vera tradizione americana bop-blues-swing, mentre dovunque il jazz si piegava a commistioni surreali ed a formule poppish o pseudo-jazz. Scott Hamilton non ha mai disdegnato le co-leadering con altri artisti, in particolare due riuscitissimi incontri con un altro tenorista, Buddy Tate: il primo sodalizio avvenne nel 1979 e portò in stampa l’album «Back To Back»; il secondo, in oggetto, del 1981, ossia «Sott’s Buddy», in cui vennero rafforzate alcune ottime idee accennate nella sessione precedente.

Scott Hamilton & Buddy Tate – «Back To Back», 1979

Generazioni a confronto, circa 40 anni di differenza fra i due, ma l’amalgama ed il punto di cottura dell’album fu perfetto. I due tenori, nonostante le differenze generazionali si comprendono si sostengono e si compensano. Il veterano Buddy Tate e l’allora giovane apprendista stregone, Scott Hamilton creano una potente e vivace combinazione attraverso il swing, ricreando con pochi elementi l’atmosfera della grande orchestra. «Back To Back» fu il primo sodalizio fra i due sassofonisti; ne seguirà un altro nel 1981, ossia «Sott’s Buddy», in cui verranno perfezionate ed arricchite talune idee sviluppate in questo riuscitissimo primo album. Registrato al Coast Recorders di San Francisco in California, nel 1979 per la Concord Jazz Records, il set vide all’opera un affiatato quintetto con Buddy Tate e Scott Hamilton al sax tenore, sostenuti dal pianista Nat Pierce, dal bassista Monty Budwig e dal batterista Chuck Riggs. Anche in questa circostanza, il piccolo ensemble si muove essenzialmente intorno alle vestigia del repertorio classico, a parte un componimento originale, limitandosi ad interagire con piglio assai gaudente su alcuni standard, per l’occasione, rielaborati con qualche variazione tematica; i due tenori risultano in splendida forma durante tutta la sessione, mentre i sodali reggono perfettamente le fila del gioco. Come tutti i vinili della Concord Jazz, la qualità sonora è insuperabile. Gli audiofili potranno fare i salti di gioia.

Scott Hamilton & Buddy Tate

Scott Hamilton & Buddy Tate – «Scott’s Buddy», 1981

Registrato al Coast Recorders di San Francisco in California, il 28 agosto del 1980 per la Concord Jazz Records, il set vide all’opera un sestetto, con un piano ed una chitarra a dare man forte in prima linea ai due sassofonisti. Anche in questa circostanza, da consumato interprete di standard, il caldo afflato del tenore di Scott Hamilton, unito ad un impeccabile senso dello swing, crea un’atmosfera ricca di pathos e cromatismi melodici. La presenza di Buddy Tate, tenorista storico in attività già dagli anni ’30, aggiunge alla sessione un valore inestimabile. Il contrasto fra i due rende ogni momento del set non scontato e prevedibile. Da una parte il fuoco bruciante e la carica blackness di Tate, dall’altra il misurato incedere di Hamilton, tipico della scuola californiana. La band formata da Buddy Tate e Scott Hamilton al sax tenore, Cal Collins alla chitarra, Nat Pierce al piano, Bob Granturco al basso e Jake Hanna alla batteria, esplora sette componimenti a presa rapida, tar cui cinque standard e due originali a firma Tate.

Flip Phillips & Scott Hanilton «A Sound Investment», 1987

Registrato al Penny Lane Studio di New York nel marzo del 1987, l’album si lega ad una strana coincidenza: la pubblicazione avvenne solo un mese dopo il crollo della borsa del 1987, mentre era stato fissato su nastro tre mesi prima. La curva di rialzo sul grafico raffigurato dalla copertina divenne presto un antidoto positivo rispetto alle disfunzioni finanziarie dell’epoca. Basta comunque abbandonarsi all’atmosfera che si respira nelle varie tracce per percepirne tutte le «good vibrations», ma soprattutto le variazioni sonore tendenti al rialzo che i due tenoristi riescono a generare in questa scorrevole sessione a base di swing.

A partire dagli anni ’70 Flip, già maturo e consapevole dei propri mezzi, aveva cominciato a lavorare sul registro superiore dello strumento con una maggiore attenzione alla spazialità, alle pause, alla riflessione emotiva, utilizzando le note con parsimonia, ma con estrema eleganza, mentre il giovane Scott Hamilton sviluppava un tono più espansivo, dinamico ed affollato di note, tanto da creare un perfetto equilibrio ed un effetto compensazione da manuale. Cinque melodie su otto sono firmate da Flip Phillips, mentre i due titolari del progetto non perdono l’occasione si scambiarsi idee e spunti per la volata in solitaria; ottimo il lavoro sui fianchi svolto dal chitarrista Chris Flory, mentre il fantasma di Charlie Christian aleggia sul suo capo. La sezione ritmica con John Bunch al piano, Phil Flanigan al basso e Chuch Riggs è discreta e contenuta, ma presente, garantendo il giusto apporto dalle retrovie. «A Sound Investment» è un album di gran classe, senza eccessi sonori, fughe impossibili e complicazioni cervellotiche, un concentrato di swing e blues ad alta digeribilità. Consigliato a tutti i cultori del jazz in purezza, senza distinzione di razza, di età, di ceto e di censo, soprattutto sarebbe davvero un buon investimento per arricchire la loro discografia.

Ruby Braff & Scott Hanilton «A First», 1987

Scott Hamilton è stato uno dei jazzisti più collaborativi, tentando soprattutto quel contatto generazionale con artisti di epoche precedenti (tra lui e Braff c’erano quasi trent’anni di differenza), quale arricchimento per il suo già ricco ventaglio sonoro ed espressivo, che lo collocano di diritto nell’albo d’oro di più accreditati sassofonisti bianchi di tutti tempi. Il titolo dell’album è alquanto emblematico e si riferisce alla «prima» collaborazione tra lui e Ruby Braff, estroso cornettista e trombettista, il cui stile si era forgiato seguendo le orme di Bix Beiderbecke e Louis Armstrong e già sulla scena dalla fine degli ’30 con la Edmond Hall Orchestra al Savoy Cafe di Boston.

Per verità storica, c’era già stata una fugace collaborazione fra Braff ed Hamilton, i quali, nel dicembre 1983, avevano partecipato insieme ad una sessione per l’etichetta svedese Phontastic. L’album «A Frist» fu registrato sotto le insegne della Concord Jazz, allo studio Penny Lane di New York nel febbraio del 1985 con l’accompagnamento di quello che all’epoca era il quartetto stabile di Hamilton: il pianista John Bunch, il chitarrista Chris Flory, il bassista Phil Flanigan e il batterista Chuck Riggs. Braff e Hamilton, si stuzzicano, s’ispirano e s’inseguono a vicenda su un ottimo terreno bop a forti tinte swing, attraverso assoli esplosivi, ricchi d’inventiva e costantemente appassionati. Tra i momenti più riusciti dell’album, vanno segnalati «Rockin’ Chair», «Dinah», «All My Life» e «Bugle Blues».

Scott Hamilton – «Plays Ballads», 1989)

Il titolo, «Plays Ballads» descrive alla perfezione il contenuto dei questo album. Il sax tenore di Scott Hamilton, dai toni caldi e pastosi, è magnificamente accompagnato dal piano di John Bunch, dalla chitarra di Chris Flory, dal basso di Phil Flanigan e dalla batteria di Chuck Riggs. L’album raccoglie otto ballate, mettendo in evidenza con garbo ed eleganza la grande bellezza di alcune classiche melodie dell’American Song Book, tra cui «Two Eighteen» firmata dal band-leader.

Registrato nel marzo del 1989 presso lo studio A&R Recording di New York, il disco mostra una curva melodica avvolgente ed un leggero movimento fluttuante come un’imbarcazione che procede in acque tranquille; qualche onda leggera turba la velocita di crociera, sfiorando appena un andamento mid-range; per il resto il costrutto sonoro si sostanzia come un leggero vento di brezza che accarezza i sentimenti più profondi e descrive le umane paturnie degli amanti. I veri sassofonisti esprimono la propria vaglia soprattutto nelle ballate: è facile lanciare il cavallo al galoppo a briglie sciolte, ma è molto più difficile trattenerlo e farlo procede con garbo a passi di danza scanditi dal battito del cuore in una sorta di valzer lento dell’anima. «Plays Ballads» è un disco avvolgente e rilassato, adatto ad un rendez-vous amoroso o ad un viaggio ideale sulle ali di una farfalla.