Donald Byrd – «Harlem Blues», 1988
// di Francesco Cataldo Verrina //
La figura di Donald Byrd è stato un asset importante per il jazz degli anni ’50 e ’60, un ingranaggio fondamentale all’interno del lubrificato marchingegno Blue Note. In termini calcistici si potrebbe dire che non fu mai un centravanti di sfondamento, ma un rifinitore e spesso un ottimo mediano. Per intenderci, Donald Byrd non era mai l’uno, ma sempre l’altro. Personalmente, al netto dei successi commerciali o della fama acquisita, ritengo che debba essere considerato uno dei migliori jazzisti di tutti tempi: un artista completo, un buon esecutore, un fluido compositore con studi regolari ed approfonditi, dotato di spiccate capacita di leader-shipping, organizzatore di sessioni epocali ed uomo di punta al servizio di vari line-up, un musicista sensato e capace di fare un passo indietro al momento opportuno. Credo che sia stato il jazzista con la più lunga militanza spazio-temporale all’interno dell’organizzazione di Alfred Lion, senza tralasciare la sua attività di valido docente.
Proviamo a scivolare tra i suoi ricordi: «Ho conosciuto Coltrane quando andavo alle scuole medie a Detroit», raccontò Byrd. «Un giorno saltai le lezioni per andare a vedere Dizzy Gillespie, ed è lì che conobbi John. Trane e Jimmy Heath erano appena entrati nella band di Gillespie. Io avevo portato la mia tromba e lo trovai seduto vicino al pianoforte in attesa che il gruppo di Dizzy iniziasse ad esibirsi. Aveva il sassofono in grembo, mi guardò e disse: vuoi suonare? Così lui suonò il piano e io feci l’assolo. Non potevo immaginare che sei anni dopo avremmo registrato insieme. Il punto è che non si sa mai che cosa la vita sia pronta a riservarci».
Il trombettista venne battezzato con un nome imponente. Vorrà pur dire qualcosa, se crediamo vagamene al fato? Donaldson Toussaint L’Ouverture Byrd II nacque a Detroit il 9 dicembre del 1932. Il padre, E. T. Byrd, era un sacerdote metodista con una sua congrega, quindi in casa Byrd la situazione economica era piuttosto florida. Ciò consentì al giovane Donald di iscriversi al corso di musica alla Wayne State University, studi interrotti da due anni di servizio nell’aeronautica militare. Dopo aver conseguito la laurea alla Wayne State, Byrd si trasferì a New York, dove iniziò a bazzicare gli ambienti jazzistici. Nel frattempo conseguì un master in educazione musicale alla Manhattan School of Music. Ciononostante Byrd è stato spesso bistrattato ed accusato di “tradimento” per alcune sue scelte avvenute a partire dalla prima metà degli anni ’70, mentre la musica afro-americana iniziava a disperdersi in mille rigagnoli. Molto si evince da queste sue parole pronunciate con amarezza in un’intervista radiofonica del 1982: «Poi certa gente che gravitava intorno al jazz (la critica e i soliti conservatori) ha cominciato a speculare (lui dice a mangiare) su di me, come se si fossero riuniti durante un banchetto durato dieci anni, ripetendo sempre: si è venduto! Ogni cosa negativa veniva attribuita al sottoscritto, a Donald Byrd. Comunque, ho resistito, per loro ero diventato solo un luogo comune. Poi hanno trovato un capro espiatorio ed un nome, così hanno iniziato a chiamare quel tradimento jazz fusion, jazz rock o funk fusion».
Nel 1988, quando Donald Byrd diede alle stampe «Harlem Blues» per la Landmark Records aveva 66 anni. Sin dal 1972 aveva abbandonato il jazz mainstream, dedicandosi all’insegnamento ed a promuovere l’attività della sua nuova band, i Blackbyrds, gruppo dedito ad una mistura sonora a metà strada tra il rhythm’n’blues classico e la più moderna funk-fusion. Erano passati cinque anni dalla sua ultima incisione discografica, inoltre, a conti fatti, ne erano passati quindici dal momento in cui aveva abbandonato i ripidi sentieri dell’hard-bop; soprattutto aveva trascurato il suono della sua tromba, unico ed inconfondibile, elemento caratterizzante di moltissimi set nell’epopea d’oro del jazz anni ’50 e ’60. Volendo cercare il pelo nell’uovo, il periodo di lontananza dal strumento risulta evidente in vari punti dell’album, dove Byrd appare più come una sorta di demiurgo, di organizzatore della session piuttosto che quell’animale da palcoscenico, dal temperamento irruento, dal sangue caldo irrorato di soul e blues.
L’insegnamento e la gestione di un gruppo in pianta stabile avevano fatto maturare in lui altre convinzioni. Dando per scontato che a 66 anni non si possegga più l’impeto di un giovinetto, soprattutto quando si è appagati da una posizione istituzionale. In tutta franchezza credo che il vecchio leone della tromba abbia voluto deliberatamente dare spazio ai suo quattro eccellenti sidemen: l’altoista Kenny Garrett, il pianista Mulgrew Miller, il bassista Rufus Reid e il batterista Marvin “Smitty” Smith. Nonostante il nuovo assetto produttivo, il figliol prodigo, Donald Byrd, tentò un ritorno alle origini con un album nell’insieme di alto valore qualitativo, soprattutto tenendo conto del periodo in cui venne immesso sul mercato. In quegli anni trovare album jazz di questa fattura, distillati in purezza, era assai raro.
Registrato il 22 ed 24 settembre 1987 al Van Gelder Studio con la produzione di Orrin Keepnews, «Harlem Blues» si basa su tre composizioni originali che fanno da contorno ad un riuscitissimo omaggio a Thelonius Monk, attraverso una lunga versione di «Blue Monk», che da sola vale il prezzo della corsa ed una splendida interpretazione di «Harlem Blues» di WC Handy, sicuramente il pezzo più riuscito dell’album; interessante risulta anche la scelta del terzo standard, «Alter Ego» di James Williams. Due brani sono firmati da Byrd, «Fly Little Bird» e «Sir Master Kool Guy», mentre «Voyage à Deux (Journey for Two)» fu scritta per l’occasione dal sassofonista Kenny Garret. Questo album fu l’inizio di una nuova partenza e non ci volle molto, perché il vecchio Donald Byrd si scrollasse un po’ di polvere di dosso.

