// di Bounty Miller //
Ascrivere Ian Dury al mondo della «disco» potrebbe apparire una sorta di eresia, almeno per qualche permaloso scribacchino a gettone o topo da biblioteca, compilatore di enciclopedie e catalogatore di generi e stili. Ian Dury entra di diritto nella storia della «musica da discoteca»: i suoi più importanti singoli, a partire dalla seconda metà degli ’70 sono stati ballati sulle più importanti dance-floor ed apprezzati dai DJs delle più accreditate discoteche dell’epoca come il mitico Paradise Garage di New York. Per non far torto a nessuno, diciamo che Ian Dury potrebbe essere considerato come un giocatore in comproprietà, per metà rock e per metà funk. Personaggio incredibile affiorato dall’oceano della musica contaminata o, per meglio dire, dalle acque limacciose del Tamigi, dal mare-magnum della new wave, forse old-wave, no-punk, anti-rock, blues-funk, quasi disco.
Dopo una lunga permanenza nel circuito dei pubs più scalcinati della periferia londinese, Ian Dury divenne presto sinonimo di artista scanzonato, ironico, iconoclasta, capace di una notevole forza corrosiva. Questo londinese, affetto da poliomielite durante la giovinezza, non proprio bello come la classica pop-star dotata di forte sex-appeal, attorniato da musicisti ancora più malandati e trasandati di lui, seppe conquistare il mondo con una manciata di singoli ed altrettanti album ricchi di spunti innovativi, interpretando per un certo periodo il ruolo di disturbatore e castigatore del piatto conformismo in cui versava la scena rock di quegli anni, massacrata dall’idiozia «sputacchiosa» del punk, dove in molti volevano fare ciò che ancora non sapevano fare: né suonare, né interpretare il ruolo di pop-star. Dopo lo scioglimento del primo gruppo in cui militava, i Kilburn & the High Roads, con i quali, nel 1974, aveva realizza un discreto album, «Handsome», Dury diede vita ad una band non meno pittoresca e variopinta, denominata Blockheads. (In italiano si potrebbe liberamente tradurre, «Teste di cazzo»).
Con questi degni compari debuttò in pompa magna con un singolo conosciuto ovunque, e diventato un modo di dire, quai una frase idiomatica, «Sex & Drugs &’ Rock’n’Roll», inno all’emarginazione condito da una sottile satira sullo scomodo ruolo e soprattutto una vergata sulla schiena agli stereotipi dilaganti tra i divi del rock. Il pezzo, pur avendo un’impalcatura rockeggiante, almeno nell’uso della chitarra, era imperniato su un incisivo riff funkified e, forse, avrebbe potuto chiamarsi anche «Funk, Drinks & Disco Dance». Ian Dury non era nero di pelle, lo era, però, di fumo (tutto quello che aveva respirato nei pubs), certamente era incavolato nero: a parte le tardive gratificazioni ottenute con la musica, la vita non era molto generosa nei suoi confronti. Figura di punta della Stiff, etichetta specializzata in artisti pazzoidi, geniali e non facilmente inquadrabili in un genere ben preciso, Dury realizzò una serie di motivi esilaranti e ballatissimi come «Hit Me With Your Rhytm Stick», «Wake Up And Make Love With Me», «Dance A Little Rude Boy» (tra Stax e Motown) e l’album «New Boots And Panties» che conquistò immediatamente le classifiche di mezzo mondo.
La sua immagine caricaturale e provocatoria con spille attaccate ovunque, fustini di detersivi al collo, ninnoli vari e altre stranezze ben difficilmente si accordava con la coreografia della prima new wave, allestita da giovinetti efebici, ben vestiti ed intenzionati a griffare il pop. Ian Dury, già all’epoca, era un uomo vissuto prossimo alla quarantina, non interessato né al punk, né alla nuova onda, ma, sicuramente, deciso, a trovare un riscatto sociale attraverso il successo: non esiste traccia di un suo dissenso nei confronti della musica da discoteca. Da lì a poco, giunse il suo nuovo proclama, «Funky Disco (Pops)», intagliato sulla falsa riga di «Sex & Drugs & Rock’n’Roll», ma questa volta impiantato in terreno di cultura più vicino alla disco. La sua produzione si arricchì con l’accoppiata funk-rap di «Reason to Be Cheerful», realizzata in collaborazione con il suo amico Chas Jankel (la voce di «Ain’t No Corrida» di Quincy Jones), o con l’album «Lord Upminster» uscito nel 1981, in cui figurano Robbie Shakespeare e Sly Dumbar, vero gioiello di afro-jazz-pop-funk (al)bionico. In quello stesso anno, i Blockheads fecero una tournée nel Regno Unito e in Europa, accompagnati da Don Cherry.
Quest’ultimo lavoro segno il passaggio alla più remunerativa Polydor, dopo che i due album precedenti «Do It Yourself» e «Laughter» erano stati pubblicati ancora sotto il marchio dell’etichetta Stiff. Ian Dury targato Polydor dimostro di essere ancora un artista vitale e capace di sorprendere, in linea con il personaggio di sempre. «Spasticus Autisticus», pubblicato nell’anno del disabile che Dury considerava paternalistico e controproducente, ma con intenti non offensivi, soprattutto l’estroso musicista si faceva beffe di una condizione personale assai precaria ed ostentava le sue limitazioni di portatore (sano) di handicap, sottolineando che l’idea del «diverso», a prescindere dai preconcetti, fosse non una dimensione reale, ma uno status ratificato dal comune pensare e vedere, nonché dall’incapacità dell’essere umano e del cittadino della società dei consumi di andare oltre i limiti della normalità. Dury anticipò di molto il concetto, oggi largamente diffuso, di «diversamente abile» che lui chiamava «terra normale», ma fu frainteso e venne subito bandito dalla programmazione musicale della rigida e reazionaria BBC dell’epoca; per contro ottenne un notevole successo di pubblico, tanto che «Spasticus Autisticus» diventò l’inno di protesta delle persone con disabilità.
Gli Anni ’70 era stati già archiviati da tempo e la carica corrosiva del punk attenuata dai vari compromessi discografici. Dopo gli anni Ottanta, le sue attività saranno molteplici sia in ambito musicale che cinematografico, per tutto il decennio, e fino agli anni Novanta, il caustico musicista del Middlesex fu rivalutato per i suoi testi, la sua iperbole poetica e dissacrante al contempo e spesso omologato a Tom Waits e Bob Dylan. Particolarmente significativo il suo interesse per la musica degli Steely Dan. La fortuna, però, non era mai stata dalla sua parte, così nel 2000, all’età di 58 anni, venne prematuramente stroncato da un cancro al colon. All’indomani della sua morte, The Guardian lo definì come «one of few true originals of the English music scene» (uno dei pochi veri artisti originali della scena musicale inglese) A prescindere da qualunque facile e improvvisata catalogazione di genere o di stile o di improbabile collazione in questa o quella gabbia-pop, è assurdo ritenere che un uomo intelligente, un musicista di vaglia, un artista ironico e brillante, possa essere imbrigliato nel ristretto circuito del punk con cui condivideva solo una spiccata carica antagonista ed un’evidente estetica iconocalsta. Potrebbe risultare addirittura ardimentoso, averlo confuso con i «discotecari», ma in fondo «It’s Only Rock And Roll!», nulla più!
Discografia Consigliata
Wotabunch! – Ian Dury & The Kilburns (1977)
New Boots and Panties!! – Ian Dury (1977)
Do It Yourself – Ian Dury & The Blockheads (1979)
Laughter – Ian Dury & The Blockheads (1980)
Lord Upminster – Ian Dury (1981