// di Francesco Cataldo Verrina //
Paul Motian è stato un batterista chiave nell’ambito dell’evoluzione del jazz moderno con una trentina di album da band-leader e centinaia di eccellenti collaborazioni al vertice con Bill Evans, Thelonious Monk, Keith Jarrett, Carla Bley, Charlie Haden, Don Cherry, solo per citarne alcune. In ogni live-set, in ogni sessione, il batterista di Philadelphia è stato sempre un ingranaggio fondamentale del line-up, contribuendo spesso alla buona riuscita del progetto con le sue composizioni.
Nel corso della lunga carriera Motian ha suscitato l’attenzione di critici e studiosi non solo come batterista dalla tecnica moderna ed innovativa, ma soprattutto in qualità di prolifico e raffinato compositore. Il lavoro di Luca Colussi, batterista Friulano di San Vito al Tagliamento, si è spinto oltre l’ammirazione per colui che può essere un riferimento per tanti batteristi contemporanei, ma il suo interesse si è rivolto proprio al Paul Motion autore, tanto da dedicargli un sostanzioso tributo con un album che raccoglie ben diciotto brani. Soprattutto, sin dalle prime note s’intuisce che non si tratta di un’operazione calligrafa, o di un ricalco manieristico, e specie dal vivo, come promette lo stesso Colussi in un’intervista: «…non saranno riproposizioni meccaniche: prevedo una nuova scaletta in ogni concerto e nuove interpretazioni dei pezzi. E l’improvvisazione avrà uno spazio determinante».
«A Journey In Motian» è uno spaccato sull’attività del batterista americano, dal 1973 al 2011, che fa riferimento a tutte le stagioni della sua articolata carriera da leader, a differenza del precedente che era un tributo circoscritto ad una sola opera di Motian: «Il precedente «Segni» raccoglieva brani di un singolo album», come spiega lo stesso Colussi. Soprattutto questo secondo lavoro del musicista friulano come band-leader mostra un’indole garbata ed elegante, priva di eccessi virtuosistici, quasi essenziale, com’era la sintassi costruttiva di Motian che, da buon batterista, amava non perdere mai il senso del tempo e dello spazio arrivando presto al nocciolo della questione. Soprattutto come accadeva nei dischi di Motian, anche il questo caso la batteria è una parte dell’ingranaggio e non diventa mai dominante, ossessiva e ridondante. Molti potrebbero osservare che non sembra proprio il disco di un batterista, dove in genere il leader, esibendo la muscolatura liscia e striata, s’inabissa e riemerge attraverso lunghe e roboanti falcate e progressioni di rullanti, crash e grancassa ad libitum, dilatando le componenti percussive delle partiture, talvolta sino allo sfinimento. «Lo so, ma se qualcuno dice questo, non mi dispiace affatto. Quando faccio un mio disco, quando decido io, la batteria è un mezzo, non dev’essere dominante, perché il fine è la musica. Un mio lavoro non dev’essere un disco per batteristi, ma per tutti», precisa Colussi. Parole estremamente mature che denotano oltre alla visione d’insieme di un musicista, anche quella di un docente di batteria. Colussi ci tiene a sottolineare l’importanza della sua figura di insegnante: «Ho una cattedra al Conservatorio di Adria e insegno anche al Conservatorio di Castelfranco e alla Fondazione Bon, a Colugna».
«A Journey In Motian» presenta un’ottima selezione del repertorio del batterista americano e nasce in origine come un progetto a tre. Racconta Colussi: «Sono partito da un trio che, oltre al sottoscritto, comprendeva Giulio Scaramella al pianoforte e Alessio Zoratto al contrabbasso. Quando ho visto che c’era un feeling immediato, e che era subito scattata quella cosa che nel jazz si chiama interplay, ho deciso di aggiungere un fiato». A questo punto le attenzioni sono ricadute su un sassofonista ( e clarinettista) di rango come Francesco Bearzatti, il quale ha accolto con entusiasmo la proposta. «È stato contentissimo fin dalla prima prova. Ho lavorato con artisti fantastici, tutto ha funzionato alla perfezione, con creatività e affiatamento straordinari, e il disco è stato completato in una sola giornata». Le parole di Luca sono alquanto eloquenti, tanto che l’ascolto dettagliato delle singole tracce dell’album rivela subito un’atmosfera di grande collegialità e sinergia, soprattutto l’impianto strutturale di Motian, non viene mai stravolto nella sua essenzialità melodico-armonica o annichilito con divagazioni e fughe verso un indefinito altrove, ma rivisitato con rispetto e collocato in una dimensione di equilibrio formale e sostanziale. I singoli componimenti, sempre riconoscibili, appaiono ravvivati da un’energia in pronta consegna, quasi alimentata da una dinamo costante fatta d’inventiva allo stato puro che rende tutto l’insieme più vicino allo spirito dei tempi.
Scorrendo le varie tracce ci si accorge che il vero lavoro, quello più prezioso, fatto da Colussi e dai suoi sodali, è l’essere riusciti a ricreare un autentico concept amalgamando il mood delle varie composizioni che raggiungono il medesimo equilibrio di tensione superficiale e profonda, sia pur attinte a differenti situazioni dell’attività di Motian. Così «Arabesque», contenuta in «Holiday For Strings» del 2002, mantiene quella suadente andatura serpentina ed orientaleggiante e potrebbe essere tranquillamente legata da un fil rouge a «Trieste», dall’album «The Story of Maryam» del 1984, città con lo sguardo puntato ad Est del mondo. «Backup», tratta da «The Windmills Of Your Mind» del 2011, ricca di sfumature dissonanti sembra puntare nello specchietto retrovisore e guardare in direzione di «Shackalaka», da «Motian In Tokyo» del 1991.
«Circle Of Dance», insieme alla succitata «Shackalaka», rappresenta uno dei climax dell’album; composizione originariamente inclusa in «One Time Out» del 1989, nel disco di Colussi riprende forma, alimentata da una piacevole poliritmia che stimola un costrutto armonico ipermodale, dove s’innestano ripetutamente piano e sassofono con un interplay da manuale. In «Mandeville» del 1982, l’ottimo call-and-response tra batteria e sassofono, sviluppa una danza che guarda verso mondi lontani ed esotici, mentre l’approdo diretto sembrerebbe l’ultima traccia, ma non per importanza, «Mesmer», da «Garden Of Eden», dove il clarinetto esegue una serie di circonvoluzioni da accademia del jazz moderno. «A Journey In Motian» di Luca Colussi è un tentativo ben riuscito di rivisitazione di un repertorio non facile da trattare. Metaforicamente, è stato come entrare in casa Motian in punta di piedi, o da estranei durante una festa, ed esserne usciti dalla porta principale carichi di regali, tra gli applausi scoscianti di parenti ed amici.
