// di Francesco Cataldo Verrina //

Due strumenti in una sessione jazz possono creare un effetto assai coinvolgente a causa del by-play costante tra i due esecutori e la perfetta simmetria sonora. A volte sembra che succedano più cose in una compagine minimale che un ensemble composito, dove tutto risulta più parcellizzato e frammentario, o comunque più prevedibile. Tra Don Cherry e Ed Blackwell in «Mu First Part» accade qualcosa di insolito rispetto allo stereotipo di free jazz che imperava in quel periodo. In genere un disco free basava il potenziale espressivo su un approccio catartico, velocizzato o rabbioso teso alla ricontestualizzazione dei formule tradizionali. In questa elaborazione Cherry e Blackwell calano il loro modus operandi in una dimensione quasi meditativa, sfiorando raramente la dissonanza forzata ed i passaggi rapidi, talvolta poco razionali. Don Cherry è vicino al culmine della ricerca globale e si mostra in grado di riverberare molteplici elementi provenienti da culture diverse incanalandoli in un modulo pratico ed in una sensibilità tattile che rimane formalmente jazz.

«Mu» è un viaggio fisico e mentale in una fitta giungla di suoni, una perfetta fusione di culture adagiate su un substrato free-form a falde larghe. Cherry fa perno non sulla quantità ma sulla varietà, mentre l’imprevedibilità è garantita dal numero di strumenti usati: oltre alla tromba tascabile e alla cornetta, suona anche il flauto ed il piano, mentre Blackwell oscilla tra batteria standard e primitivi strumenti percussivi tipo blocchi di legno. Siamo di fronte ad uno dei primi, e forse più riusciti, esperimenti in quella che in seguito verrà etichettata come world-music, un primo esempio afro-americano di musica multiculturale. Per tale operazione il trombettista, saggiamente, scelse il miglior commilitone della truppa di Ornette Coleman: Ed Blackwell, batterista con un piede immerso nella tradizione, ma capace di intercettare tutto l’africanismo percussivo disponibile in natura e di saper decifrare con disinvoltura i complessi schemi del free-jazz. Cherry si misura, senza pretese, anche al piano: il suo modo di suonare, per quanto relativamente semplice ed accordale, è fluido, melodico e deve molto ad Abdullah Ibrahim; pesa anche l’influenza dalla canzone karnatica indiana; per compenso il suo modo di suonare la tromba è stellare, accattivante, luminoso, accorato e adorabile. Quando Cherry esegue certi passaggi squillanti, adamantini e chiari, proietta il suono nell’universo della purezza come pochi altri trombettisti erano in grado di fare. Blackwell non è da meno, gli risponde tono su tono, colpo su colpo con rotolanti progressioni di derivazione africana, marce da Basin Street e con una percezione del ritmo e dell’orientamento musicale pari solo a quella di Max Roach.

I due sodali, in posizione assolutamente paritetica, amalgamano i lemmi del vernacolo tradizionale alle suggestioni etniche provenienti dal Sud del mondo. Le marching-band di New Orleans, il drumming africano e le ritmiche del Sud-Est asiatico di Blackwell si mescolano alle influenze africane e mediorientali di Cherry sviluppando un primordiale ed umile linguaggio sonoro chiamato «Mu», che cattura lo spirito del jazz nella sua forma primordiale, ma sicuramente più autentica, naturale e armoniosa. I due reagiscono istantaneamente l’uno all’altro e non c’è nessun percezione del fatto che uno sia il leader e l’altro l’accompagnatore. In alcune parti i duetti flauto e batteria rimandano a suono delle bande di fiati e tamburi tipiche del Mississippi e della Georgia, nonché alle prime forme di musica nera tradotta dall’Africa nel profondo Sud degli States. C’è forse l’idea coltraniana di «Interstellar Space», album meno materico e terreno realizzato in duetto, ossia quel sentire lo spirito umano in piena auto-realizzazione, collocato in una posizione intermedia, tra terra e cielo, tra umano e divino: una celebrazione della vita e della creazione, ma in Don Cherry è forse più presente una sorta di panteismo africano, che si riflette comunque in una musica dalla infinite suggestioni. L’obiettivo viene raggiunto attraverso il minimalismo o nel caos controllato di «Brilliant Action», dove Blackwell spara rullate roboanti in un call-and-response magistrale con il flauto di Cherry o nei territori più rarefatti di «Total Vibration», che induce ad una percezione olistica e totalizzante.

Gli incastri sono sempre perfetti, Cherry è una tavolozza variopinta di suoni, nonostante a primo acchito tutto l’impianto sembri poggiare su una concezione aleatoria, specie nella struttura più marcatamente etnica di «Omejelo». «Terrestrial Beings» è una perentoria progressione pianistica che sembrerebbe provenire da un remoto altrove. Le battute sui tasti di Cherry sono coinvolgenti, per quanto ossessive. «Sun Of The East» avvolge il tutto in un’aura di trascendenza pregna di astrattismo visivo e visionario, che poi è il segno distintivo, il core business di «Mu First Part». Don Cherry e compagno evitano di ripetersi, ma analizzando bene, possono essere ravvisati gli stessi assunti basilari di «Symphony For Improvisers», in quel caso più dilatati, rifiniti e particolareggiati da un ensemble molto più nutrito. In «Mu First Part» non ci sono virtuosismo egocentrico o muscolosità esibita ma solo estratti di anima in pronta consegna.

Don Cherry All’Amougies Festival, Belgio, 1969