// di Guido Michelone //

Quando si parla di jazz americano è quasi naturale, da parte di critici, studiosi, ascoltatori, il paragone o il confronto con altre forme tipicamente americane per ragioni diversissime: dai gusti personali ai tentativi di allargare (o talvolta restringere) gli orizzonti intellettuali.

Gli accostamenti più frequenti sono in primis tra jazz e musica afroamericana o black music (gospel, spiritual, blues, r’n’b, soul, funky, disco, rap, house, eccetera) per ovvie ragioni di appartenenze etno-storiche; poi seguono quelli tra jazz e rock talvolta per ragioni generazioni, talaltro per gli effetti incroci fra i due linguaggi dagli anni Sessanta a oggi; di rado fra jazz e folclore bianco (country, bluegrass, eccetera) per le obiettive distanze artistico-culturali fra i due mondi (benché esista qualche tentativo di sincretismo a partire già dal western swing); ancor meno tra jazz e popular song, benché quest’ultima venga in parte assorbita nella prima metà del Novecento dai repertori jazzistici e oggi rientri in un generico dominio pop (ormai globalizzato).

Ma scarsissima è infine la conoscenza dei rapporti tra jazz e classica americana, anche perché, al di fuori degli Stati Uniti, della produzione dotta a stelle-e-strisce si conosce ben poco, al di là di un solo nome, George Gershwin, divenuto l’emblema del concepire la musica in senso trasversale. Un breve excursus sulla storia della musica classica americana dovrebbe quindi consentire di approfondire ulteriormente la questione su come le diversità eterogenee sonorità riesca più o meno a relazionarsi fino a concepire o creare qualcosa di nuovo e di originale, come appunto accaduto per Gershwin e per un breve periodo con la cosiddetta Third Stream Music.

Innanzitutto va rivelato che la classica americana è, per almeno due secoli e mezzo, musica scritta nelle colonie inglesi (poi futuri Stati Uniti) nel solco della produzione colta europea. In molti casi, già a partire dal XVIII secolo, molto viene influenzato dagli stili di folk music bianchi, mentre è solo dal Novecento a oggi che si avvertono le maggiori influenze esterne (jazz compreso) talvolta anche in direzioni extraeuropee. Le prime testimonianze di musica classica americana risultano costituite da parti di canzoni usate nei servizi religiosi durante il periodo coloniale. La prima musica di questo tipo in America sono i libri di salmi, come l’Ainsworth Psalter, portato dall’Europa dai britannici nella baia del Massachusetts Bay; e di fatto la prima partitura musicale nel Nord America di lingua inglese – in effetti la prima pubblicazione in assoluto fu il Bay Psalm Book del 1640.

In parallelo, circa vent’anni prima, c’è la genesi della musica afroamericana, nel senso che nell’agosto del 1619, a Point Comfort, in Virginia, prima colonia inglese nell’America settentrionale, approda la fregata White Lion con a bordo venti uomini di origine africana (negroes) destinati a essere venduti come lavoratori; tre giorni dopo la Treasurer giunge con altra ‘merce umana’: due eventi tradizionalmente ritenuti non solo quale inizio della schiavitù in America, anche le prime fonti di una musica orale portata dal Continente Nero, perché è presumibile che i poveretti, nei rari momenti liberi, intonassero alcuni canti per alleviare traumi e sofferenze. Fra l’altro, per l’intera durata dello schiavismo americano, molti neri vengono impiegati anche quali suonatori di strumenti occidentali e di musiche folcloriche, come indicano diverse testimonianze sia letterarie sia pittoriche.

I compositori americani (come i loro colleghi pittori) per tutto il Seicento e il Settecento lavorano esclusivamente su modelli europei, mentre, già sul finire del XVIII secolo musicisti quali William Billings, Supply Belcher, Daniel Read, Oliver Holden, Justin Morgan, Andrew Law , Timothy Swan, Jacob Kimball Jr., Jeremiah Ingalls e John Wyeth – che i musicologi americani oggi indicano come First New England School o Yankee Tunesmiths – svilupparono uno stile nativo quasi del tutto indipendente dai prestigiosi modelli del Vecchio Continente, sebbene William Tans’ur e Aaron Williams attingano alla prassi della britannica West Gallery Music (o salmodia georgiana).

Quasi tutti amatoriali e spesso cantanti, questi americani sviluppano nuove forme di musica sacra, come la melodia in fuga, adatta all’esecuzione da parte di dilettanti, spesso utilizzando metodi armonici considerati bizzarri per gli standard europei contemporanei. Tra gli innovatori originali va citato un compositore come Anthony Philip Heinrich, con una buona formazione della pratica dello strumento ma autodidatta nel comporre. Heinrich viaggia molto all’interno dei giovani Stati Uniti all’inizio del XIX secolo, intensificando le proprie esperienze con musica sia orchestrale sia da camera, dalle colorature molto diverse da quanto all’epoca viene composto in Italia, Austra, Francia, Germania; Heinrich è dunque il primo compositore americano a scrivere per orchestra sinfonica, nonché il primo a dirigere una sinfonia di Beethoven negli Stati Uniti, esattamente a Lexington (Kentucky) nel 1817.

Poiché gli Stati Uniti ‘britannici’ vengono via via costituiti da molti differenti territori, alcuni dei quali fanno parte di altri imperi (Spagna e Francia in primis), la musica classica nazionale risulta variamente derivativa: ad esempio la prima musica classica in quella che oggi è la California (e in altre ex colonie spagnole) è la polifonia rinascimentale iberica di derivazione sacra, fornita per sostenere la liturgia della Chiesa cattolica. Nella Louisiana francese, sull’esempio napoleonico, esistono eserciti con appresso le marchin’ band, da cui il jazz prenderà molti spunti (dalla strumentazione alle parate per carnevali e cerimonie). Le storie della musica americana vengono quindi individuati altri compositori tra fine Settecento e inizio Ottocento: William Selby, Victor Pelissier, John Christopher Moller, Alexander Reinagle, Benjamin Carr, William Brown, James Hewitt e un certo Mister Newman autore di Tre sonate, per pianoforte forte o clavicembalo, edite a New York nel 1807

Durante la metà e la fine del XIX secolo, soprattutto nel New England, la zona culturalmente più aperta ed evoluta di tutti gli Staes, si sviluppa una vigorosa tradizione di musica classica locale, che, a detta degli studiosi americani, resta fondamentale nella storia della musica statunitense perché stabilisce le caratteristiche per distinguersi dai predecessori europei. Questa iniziativa veine guidata da compositori che vogliono produrre musica indigena americana: e il leader di tale gruppo viene unanimemente riconosciuto in John Knowles Paine, dal quale parte la Second New England School (nota pure come Boston Six), che include colleghi allievi di Paine come George Whitefield Chadwick, Amy Beach, Edward MacDowell, Arthur Foote e Horatio Parker (insegnante di Charles Ives).

Molti di questi vanno in Europa, soprattutto in Germania, per studiare, ma con l’idea di tornati negli Stati Uniti per comporre musica, esibirsi in pubblico e acquisire nuovi studenti; a livello stilistico molti compositori del XX secolo – Howard Hanson, Walter Piston, Roger Sessions – ne sono i diretti discendenti, mentre Ives, per alcuni ritenuto l’ultimo dei compositori della Seconda Scuola del New England, viene da altri additato come un artista sui generis, capace di mescolare tradizione europea, gusto popolare, crescente modernismo. La seconda metà dell’Ottocento è il periodo della piena affermazione della musica afroamericana in quanto cultura originale: benché quasi tutta di tradizione orale spiritual e blues vedono le prime raccolte scritte e un gruppo i Fisk Jubilee Singers compiere tournée in europea per far conoscere il gospel, allora noto quale negro-spiritual. Altro afroamericano, giunto sul Vecchio Continente quale pianista classico che si esibisce davanti a personaggi illustri, ricevendo addirittura gli elogi di Fredric Chopin, è il creolo Louis Moreau Gottschalk che, prima di esiliarsi in Brasile, compone diversi pezzi pianistici ispirati al folclore black, in anticipo di decenni sul ragtime dal successo popolare, ma solo alla fine del Novecento ritenuto patrimonio artistico dell’intera cultura americana. Il principale ragtimer, Scott Joplin scrive addirittura un melodramma Treemonisha, all’epoca rifiutato per motivi razzisti, creandogli seri problemi psichici che lo condurranno al manicomio.

All’inizio del XX secolo, George Gershwin autodidatta, ‘costretto’ a scrivere canzoni per sopravvivere, è fortemente influenzato prima dal ragtime, poi dall’hot jazz e in genere dall’intera produzione afroamericana: tanto nei song quanto nei lavori più impegnativi inventa una sintesi efficace e convincente che da allora ha sempre mantenuto un costante successo di pubblico (ma non di accademia), fin a essere di recente annoverata tra la vette dell’american classic music. L’approccio di Gershwin conduce direttamente a Leonard Bernstein – forse più noto quale direttore d’orchestra – che nelle partiture mescola disinvoltamente i linguaggi atonali, jazzistici, popolari in composizioni spesso formalmente classiche.

Anche Leroy Anderson, Ferde Grofe, George Antheil, Morton Gould scrivono brani sulla falsariga di un “sinfonismo jazzistico”, così come sul versante opposto Duke Ellington crea un sound unico che molti battezzano ‘jazz sinfonico’. Anche un Florence Price utilizza spesso elementi di spiritual per comporre brani vicini però alla tradizione classica europea. E per la teoria degli opposti persino James P. Johnson ritenuto solo un pianista stride, riesce a comporre i sinfonici Yamekraw e Jazzamine Concerto che simboleggiano l’Hartlem Renaissance. Con il passare del tempo, si fa sempre più forte l’idea che il padre e il genio della musica classica statunitensi sia Ives, per l’energia con cui ‘gioca’ con le tradizioni popolari americane, dalle quali trae linfa vitale l’altro unico compositore che gli si può accostare, Aaron Copland, dalla verve decisamente nazional-popolare. Il folk a stelle-e-strisce di chiara derivazione anglosassone ha le radici nella cosiddetta Appalachian Music, da cui si forma il country e verso cui si rivolgono compositori molto yankee da Roy Harris a Elmer Bernstein, da David Diamond a Elie Siegmeister.

Eppure altri compositori del XX secolo, attratti dalle avanguardie storiche europee, adottano linguaggi sperimentali, facendosi ammirare per un’indubbia singolarità espressiva: Edgar Varèse, Henry Cowell, Harry Partch, Lukas Foss, Elliott Carter e il fortunato Samuel Barber, il cui Adagio per archi è ormai fisso in ogni repertorio mondiale, benché riesca altresì a catturare un periodo di Americana (termini indicante in varie epoche ciò che è maggiormente intriso di spirito yankee, subendo quindi le oscillazioni dei gusti di pubblico e critica) in pezzi come Knoxville: Summer of 1915. Il XX secolo vede anche importanti opere edite negli Stati Uniti da importantissimi compositori immigrati, per periodo più o meno lunghi, come i due massimi rappresentanti del Novecento europeo, Igor Stravinsky e Arnold Schoenberg, giunti venuti in America almeno per tre buoni motivi, rispetto a quel che accade nel Vecchio Continente tra le due guerre mondiali: le persecuzioni razziali-politiche, la libertà estetica, le opportunità economiche. Da un lato Schonberg fatica a integrarsi come artista, pur diventando un riferimento didattico assoluto (anche per alcuni jazzisti), dall’altro Stravinsky compone Ebony Concerto, la prima vera partitura per una big band (Woody Herman e poi Benny Goodman) purtroppo mai seguita da altre iniziative analoghe, tranne forse dieci anni dopo la cosiddetta Third Stream Music, che è però un fenomeno di jazzmen che s’avvicinano alla classica (e non viceversa, se non a livello di esecutori).

Benché già attivo prima della Seconda Guerra Mondiale, John Cage poco a poco assurge quasi a divo tra gli anni Cinquanta e Ottanta, quale icona prima di una neoavanguardia oltranzista, poi come ispiratore del postmoderno musicale o antesignano di taluni atteggiamenti hippy; intriso di tante culture dal dada allo zen, dall’alea all’I-Ching resta noto soprattutto pezzo 4’33”, detto anche Silenzio, autentico paradosso della creatività umana, per il quale non ci sono note scritte sulla pagina e la musica è descritta quale costruzione dei suoni dell’ambiente circostante del pubblico, estendendo così la definizione di musica a coesistere con tutto e consistere di ogni sonorità anche se priva di una struttura creata dal compositore. Cage in Italia viene interpretato, lungo i Seventies, da Demetrio Stratos, cantante degli Area, quintetto tra prog e free.

L’ultima grande corrente, in ordine di tempo della musica classica americana a far parlare molto di sé, diventando quasi un fenomeno pop è il cosiddetto minimalismo nei primi Sixties a New York City: compositori quali Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley, Lamonte Young, Charlemagne Palestine, John Adams, pour non facendo quasi mai gruppo, usano tutti le stesse tecniche compositive altamente sperimentali (benché in parte derivate da alcune musiche dell’estremo oriente) come drones, phasing, motivi ripetuti, passaggi reiterati, netti contrasti fra misure miste, movimenti semplici ma spesso bruschi tra accordi minori e maggiori con la stessa dominante, contrasti tra tonalità e atonalità, e spesso l’uso di sintetizzatori per mostrare l’interazione fra blocchi sonori: i minimalisti arrivano quindi a cancellare o amplificare le lunghezze d’onda che compongono l’intero suono sia acustico sia sintetizzato. Curiosamente questi compositori quasi mai collaborano con i jazzisti, preferendo di gran lunga il mondo del rock come mostrano le collaborazione via via con John Cale, Lou Reed, David Bowie, Polyrock.

I jazzmen – al di là dei rari casi in cui si cimentano nella scrittura dotta come Dave Brubeck ampiamente riconosciuto oppure Eric Dolphy e Charles Mingus con lavori rimasti nel cassetto – a loro volta prediligono i compositori radicali, stando agli incontri perlopiù sporadici ad esempio fra Freddie Hubbard e Ilhan Mimaroglu, Anthony Braxton e Richard Teitelbaum (e prima ancora Don Ellis e Bernstein), oppure alcuni esponenti dell’AACM e in seguito della Knittting Factory e in genere tanti autori del free e del post-free. Leggermente diverso il caso del pianista Uri Caine che discograficamente rilegge alcuni classici della musica europea (Bach, Veri, Beethoven, Mahler, Wagner, eccetera) mescolando il jazz al citazionismo.

Infine è Frank Zappa, colui in quale mette forse tutti d’accordo, giacché incarna al meglio lo spirito americano capace di unire o fondere sonorità lontanissime: partito come sperimentatore sull’onda di Cage, inventa a mid Sixties una sorta di rock cabaret dadaista dove mescola il r’n’b a Stravinskj ed a Varèse, per avvicinarsi quindi anche al jazz, rifare il barocco e vedersi dirigere la proprie musiche in versione sinfonica niente meno che dal grande compositore francese Pierre Boulez.

Frank Zappa