// di Francesco Cataldo Verrina //
Conosciamo bene la storia dell’ECM che, per farsi una nomea, a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, offrì ospitalità a molti jazzisti americani ed afro-americani, «profughi» dall’irriconoscenza della terra natia o rifugiati nei paesi del Nord Europa per motivi vari, spesso problemi con la giustizia (in genere uso di sostanze stupefacenti e fisco non pagato); talvolta ingaggiati occasionalmente, poiché si trovavano nel Vecchio Continente per un tour o motivazioni contingenti. Tutto ciò diede all’ECM la possibilità di accrescere il proprio prestigio internazionale, caldeggiando le linee espressive del jazz statunitense, specie quelle più oltranziste e sperimentali. Raggiunto lo scopo ed acquista la credibilità, l’etichetta tedesca ha iniziato a cannibalizzare alcuni moduli espressivi del bop snaturandoli ed, in molti casi, asservendo tanti musicisti di rango, forse bisognosi di guadagnare, dopo averli piegati ad alcune scelte editoriali totalmente antitetiche o non conformi agli stilemi del jazz. Tra i tanti passeggeri occasionali, saliti sul treno in corsa della label di Manfred Eicher, c’è anche Sam Rivers, personaggio irrequieto e con una carriera a macchia di leopardo, nonché esploratore indomito dei terreni più impervi del modulo jazzistico.
Siamo nel dicembre del 1979, l’album fu pubblicato nel 1980, oltre il bel mezzo del cammino della vita artistica di Rivers. Quando il sassofonista di Orlando, per la prima e l’unica volta, si concesse all’ECM distillando sette componimenti fitti di situazioni musicalmente contrastanti e con il baricentro spostato in avanti, aveva già cinquantasei anni ed un lungo carnet di esperienze dietro le spalle. L’avanguardia di Sam Rivers è sempre stata una formula compromissoria tra elementi della tradizione e tentativi di sperimentazione a controllo numerico, mai eccessiva e debordante, tanto che «Contrasts» non sfugge a tale regola o, almeno, la rispetta in parte, soprattutto prende le distanze dalle formule dirottatorie e devianti, tipiche dell’etichetta di Eicher. Per intenderci, «Contrasts» non è il canonico album del catalogo ECM. Il sassofonista dimostra di essere alquanto abile nel mantenere la tensione superficiale del costrutto ritmico-armonico a metà via tra un lirismo che non smarrisce mai la quadratura melodica, sia pure inoltrandosi nelle zone impervie del registro, e il desiderio di rilasciare nell’aria quasi un’aura di intenso spiritualismo coltraniano. Il primo contrasto, quello più evidente, nasce dalla diversa percezione che il fruitore riceve da una prima linea di fuoco, imprevedibile e (stra)vagante, con Sam Rivers ai sassofoni soprano e tenore ed al flauto e George Lewis al trombone, rispetto ad maggiore fermezza della retroguardia, con Dave Holland al contrabbasso e Thurman Barker alla batteria e marimba, quasi a voler presidiare il convoglio, evitando che il terreno potesse improvvisamente franargli sotto i piedi. Per intenderci, un misto di spregiudicatezza e di cautela, perfettamente amalgamate, mutualistiche e compensatorie.
Siamo in presenza di un disco declinato attraverso una sintassi libera e non coattiva, ma la stessa organizzazione della track-list è studiata per alternare momenti deliberatamente free con situazioni a volo libero, ma più contenute. Ad esempio, al netto delle precedenti collaborazioni con Anthony Braxton, Rivers non si cala mai in situazioni, in cui il rapporto tra suono e materia viene del tutto annullato, ma non è neppure il sassofonista dei dischi pubblicati con la Blue Note. Rivers, Holland e Barker avevano già lavorato insieme un paio d’anni prima, durante la registrazione di «Rivers’ Waves», quindi ci si aspettava maggiore complicità fra i tre, in realtà, come già osservato, sembrerebbe che Rivers sia più attratto dal «guerreggiare» con Lewis, mentre Holland e Barker risultano chiaramente più sincroni ed in grado di percepire le mosse l’uno dell’altro e di rimanere in collegamento costante, pur fornendo un supporto ritmico aperto e flessibile in tutte le tracce del disco.
L’opener della prima facciata è affidato a «Circles», il brano più libero del disco, permeabile al flusso delle idee e con una struttura alquanto aperta, dove ognuno dei quattro musicisti s’inserisce ed apporta al costrutto idee fresche di giornata attraverso un empatico by-play. In realtà, l’inizio sembra una sorta di guerriglia intransigente, caratterizzata dalle figure sonore piuttosto lancinanti di Lewis, il quale emette un borbottio, cupo e sinistro, che ricorda vagamente la voce umana in un film dell’orrore, avvolto dal basso arcuato di Holland, dalla batteria aritmica di Barker e dalle linee frenetiche e vorticose del sax soprano del leader. Non sembra esserci alcuna barriera di contenimento, tutto appare alquanto improvvisato e spontaneo: Holland appare in grande spolvero con le sue sinuose melodie d’arco, mentre Barker tira fuori muscoli per delimitare lo strapotere di Lewis e Rivers, che si alternano con lunghe raffiche di note e brevi interazioni non pianificate. È un ottimo scorcio panoramico di improvvisazione aperta, anarcoide, basata però su un’intesa condivisa, quasi composta, e segnata da una fluidità che consente all’ascoltatore di non perdere mai il filo. «Zip», la seconda traccia, imperniata su post-bop molto più convenzionale, mette il luce le capacità del vecchio Rivers soprattutto al tenore, mentre Holland e Barker sono ancora in perfetta sintonia come due gemelli siamesi; dal canto suo Barker si ritaglia un assolo da manuale. «Solace» si materializza attraverso un’esplorazione nebbiosa, umbratile e misteriosa con Barker che si misura alla marimba interagendo magnificamente sia con Rivers che con Lewis, i quali a loro volta si scambiano idee e suggerimenti. Con l’arrivo di «Verve», c’è un ulteriore cambio di mood, il line-up si aggrega intorno ad un groove funkified e danzante dal sapore caraibico mutando completamente umore rispetto alla traccia precedente, mentre Rivers, dopo aver imbracciato il flauto raggiunge il climax dell’accessibilità di questo disco, accompagnato da un walking di basso trainante e da una batteria che inventa in tempo reale. Dopo aver accumulato un notevole slancio melodico, l’incantesimo viene spezzato da un assolo di basso, da un interludio di trombone e da un momento collettivo assai più torvo e meditabondo, mente il tema melodico iniziale svanisce nel nulla abbandonato a sé stesso.
L’apertura della B-Side segna il punto culminante dell’intera sessione con un titolo estremamente appropriato «Dazzle», che si riferisce a qualcosa che abbaglia e che stupisce. «Dazzle» è anche il brano più lungo dell’album ed oltrepassa i nove minuti. Tutti i sodali appaiono alquanto ispirati, ma Rivers sembra posseduto dai demoni creativi. In sintesi: un dialogo veloce ed ossessivo tra sax tenore e batteria, rimpinguato da una furente linea di trombone e da un convincente basso ad arco. In «Images» ritorna la marimba di Barker e, nel finale, si sente il flauto di Rivers insieme al glockenspiel (non accreditato), presumibilmente suonato da Barker. Trattasi di strumento idiofono, utilizzato spesso nelle orchestre, formato in origine da un gruppo di piccole campane e da una tastiera sostenuta da barrette di metallo. «Lines» è soprattutto una vetrina espositiva per Holland che disegna un arazzo armonico avvincente e intricato. In trio (senza Lewis) il costrutto sonoro appare più sostanziale ed incisivo con un’esecuzione mozzafiato e senza fronzoli da parte di Rivers.
Gli anni Settanta sono spesso considerati un periodo piuttosto arido per il jazz, soprattutto si assiste al fenomeno della contaminazione a vari livelli. Molti jazzisti della prima ora erano trapassati; le nuove leve, che avrebbero animato il decennio successivo, non erano ancora emerse; i boppers sopravvissuti stavano invecchiando. Il jazz d’avanguardia, tuttavia, risultava artisticamente in ottima forma e salute, anche se commercialmente claudicante. Sam Rivers in quegli anni era già un veterano della vecchia guardia, ma grazie ad una mentalità aperta e, in parte in virtù del suo centro di insegnamento creativo, lo Studio Rivbea, stava vivendo una nuova giovinezza caratterizzandosi come uno dei protagonisti della scena free. «Contrasts», dal punto di vista stilistico, è leggermente fuori dagli schemi della ECM, concettualmente e formalmente è puro Sam «Free» Rivers allo stato dell’arte ed in uno stato di grazia compositiva ed esecutiva, dove correnti musicali, contrastanti ma complementari, fuoriescono da tutti e sette gli originali di Rivers. Le composizioni, costruite in modo mercuriale, non solo lasciano ampio spazio alla spontaneità individuale, ma non consentono di eseguire nemmeno una nota fuori posto, nonostante le tante situazioni umorali ed apparentemente incongrue. Rivers è stato uno dei maestri del jazz del dopo guerra: apprezzato per il lavoro fatto negli ultimi vent’anni di vita, per gli storici è rimasto in un limbo fino alla sua morte, avvenuta nel 2011 all’età di 88 anni. Sicuramente, il sassofonista di Orlando ha prodotto album più coerenti ed immediati per l’utente medio, ma in «Contrasts» c’è tutto il Rivers all’apice delle sue capacità strumentali.
