Benny Carter – «Jazz Giant», 1958
// di Francesco Cataldo Verrina //
Quando registrò questa sessione particolarmente efficace per Contemporary, Benny Carter era già stato un protagonista del jazz per quasi 30 anni. Rilevante il contributo del sassofonista tenore Ben Webster, del trombonista Frank Rosolino e del chitarrista Barney Kessel. Carter, che suona anche la tromba in «How Can You Lose», appare in ottima forma durante tutto il set costituito da cinque standard e due brani originali scritti da lui. Nell’insieme la musica contenuta in «Jazz Giant» è senza tempo, superando i ristretti confini spazio-temporali, soprattutto travalica le semplici e schematiche categorie di «swing» o «bebop»: la definizione più appropriata dovrebbe essere jazz evergreen. Fissiamo subito alcuni punti di ancoraggio: «Jazz Giant», titolo non proprio originalissimo, è un album in grado di sedurre il jazzofilo più esigente e schizzinoso, come il neofita più spaesato, perfino colui che di jazz non ne vorrebbe neppure sentire l’odore lontano un miglio; è un disco facile ed immediato, solare, aperto, ricco di melodia, senza complicazioni intellettualoidi e sperimentalismi complicati, completamente avulso da ogni metodo improvvisativo non catalogabile, fuori dalle regole e dai dettami più classici del vernacolo jazzistico.
«Jazz Giant», come titolo, oltre che banale, potrebbe apparire pretenzioso ed, al primo impatto, essere recepito con scetticismo, eppure Benny Carter ebbe un ruolo di tutto rispetto nella storia del jazz, magari un gradino sotto l’Eden delle solite sette o otto divinità adorate su tutto il pianeta Terra, ma insieme a decine di altri validi musicisti, interpreti e compositori, costituì la struttura portante di un fenomeno musicale, a volte elitario e ideologizzato, ma fortemente popolare con oltre un secolo di divulgazione sul groppone.
Volendo usare un paradosso, Benny Carter è stato forse il più grande fra i leaders di big band, di cui la maggior parte delle persone non ha mai sentito parlare, al netto degli esperti o dei veri appassionati jazz senza distinzione di razza, ceto e censo. Dopo la prima fase della carriera, già parzialmente consegnata agli annali, negli anni Cinquanta Carter si stabilì a Hollywood ed iniziò a registrare una serie di album di una certa qualità, cementando la sua reputazione. «Jazz Giant» è un eccellente lavoro che funge in parte da preziosa reliquia di un’epoca passata quando era in voga lo swing di Kansas City, ma al contempo si muove agilmente nel contesto sonoro di quegli anni, quando il jazz si divideva in tanti rivoli e innumerevoli tendenze e le personalità dei singoli si stagliavano all’orizzonte, allontanandosi dal movimento bop in maniera evidente, prendendo le distanze dalla moltitudine, talvolta più per eccesso di diversità e di unicità tecnica, che non per reali meriti artistici. Il jazz di quegli anni non era di certo affare da poco e da pochi, facile da contenere e da descrivere senza qualche affanno.
Con il senno di poi, compilatori di enciclopedie e saggisti a vario titolo si sono limitati a schematizzare: la materia da plasmare era tanta, i dischi da trattare e catalogare molteplici. Questo è comunque un lavoro che non passa inosservato, nel bene e nel male. Forse eccessivamente avanti e non ortodosso rispetto allo swing, troppo arretrato rispetto al bop. Oltre a Carter, Ben Webster, un altro «gigante», che ebbe una seconda vita artistica negli anni Cinquanta, ha dato il suo fattivo contributo a queste registrazioni facendosi strada attraverso alcuni incisi immortali e ricamando melodie a presa rapida con un tocco sul sassofono da grande maestro: solo questa sarebbe una ragione sufficiente per correre a cercare il disco. A supporto un’ottima sezione ritmica costituita da un gruppo di musicisti di area West Coast: Frank Rosolino trombone, Andre Previn e Jimmy Rowles piano, Barney Kessel chitarra, Leroy Vinnegar basso, Shelly Manne batteria.

A giudicare dal loro entusiastico accompagnamento e dalla facilità con cui trattano la materia, probabilmente, al momento della registrazione, avevano divorato tutti i precedenti dischi di Carter. Il gruppo passeggia con disinvoltura e passo deciso attraverso una selezione di standard provenienti dalla prima metà del secolo e due composizioni originali che non sfigurano al confronto. Rowles, Kessel e Rosolino si muovano alla perfezione sulla partitura, ma il piacere scaturisce soprattutto nell’ascoltare gli inserti di Webster e Carter. Gli assoli di Carter, con eleganza signorile e frasi sfreccianti, trovano ricche vie armoniche in «Is not She Sweet». Webster, d’altra parte, passa indenne attraverso i cambiamenti di ritmo e di umore dell’ensemble, impiegando pazientemente un tono misurato con un contenuto tasso armonico, tanto da evitare di suonare in maniera troppo sentimentale e dolciastra. Come bonus, Carter sottolinea la sua abilità sulla tromba in due brani, entrambi i quali dimostrano che avrebbe potuto avere una discreta carriera anche con tale strumento. La musica di queste sessioni non accampa pretese di cambiamento sulla storia del jazz, mostrandosi luminosa, rilassata, vivace e dotata di uno swingin’ contagioso. Ognuno dei musicisti ha la possibilità di suonare liberamente ed affermare il proprio valore. Carter si esprime con il suo caratteristico lirismo, abilità tecnica e la tipica ricercatezza del suono cristallino, proprio come il gigante Ben Webster dimostra una straordinaria immaginazione melodica. Frank Rosolino conferma la sua individualità inventiva, Barney Kessel suona con il solito fraseggio flessuoso, uno spirito quasi laconico e una consumata disinvoltura, mentre la sezione ritmica non è mai inferiore alla prima linea.
Le due tracce iniziali dell’album, «Old Fashioned Love» e «I’m Coming Virginia», pur eseguite con un gusto moderno, sono un tuffo nel passato: come rivedere un film degli anni ’30 con un’affollata da ballo su un battello da crociera che risale il Missisipi; «A Walkin’ Thing» strizza l’orecchio al bop, ma senza sconfinare eccessivamente. La seconda facciata si apre con «Blue Lou», un contagioso swing suonato magistralmente con la tempra di una big band; a seguire «Aint No She Sweet», una morbida ballata dal mood vagamente cool. Le ultime due tracce, «How Can You Loose» e «Blues My Naughty Sweetie Gives To Me», presero vita felicemente in modo fortuito, grazie alla lungimiranza dei sodali. Benny Carter aveva fissato una sessione in studio, ma si ammalò all’ultimo minuto, così Barney assunse il ruolo di leader, mentre i sidemen decisero di usare il loro tempo per una seduta di prove informale, durante le quali espressero anche la loro verve creativa.
I risultati furono eccellenti ed includono alcuni delle migliori performance mai registrate da Webster e Rosolino. Il tempo di esecuzione dell’album è breve, appena quaranta minuti, ma c’è abbastanza swing classico per ricordare all’ascoltatore quel tempo non lontano in cui il jazz era più musica da ballo e da compagnia, che mera esplorazione introspettiva, sperimentalismo e antagonismo sociale. Siamo nel 1958 ed il jazz moderno cominciava ad aprirsi un varco vero nuove abissali profondità da scandagliare.
