// di Roberto Biasco //
Il Roma Jazz Festival di quest’anno, svoltosi tra il 6 ed il 19 novembre, ha presentato ancora una volta una serie di concerti ricchi di interesse, dislocati, a seconda della capacità di richiamo degli ospiti, oltre che nei consueti spazi dell’Auditorium Parco della Musica e della Casa del Jazz, anche in locali decentrati, come il Teatro Lido di Ostia, ed il Monk, un club da sempre orientato verso un pubblico giovanile e attento la scena “alternativa” ed alla cultura hip-hop.
Tra i tanti appuntamenti di maggior richiamo vogliamo ricordare almeno quello della cantante Lady Blackbird, che ha aperto il festival tra soul e jazz, sulle tracce dell’immensa Nina Simone, dell’inossidabile brillantezza “fusion” di Spiro Gyra, e la chiusura in bellezza dei Five Elements di Steve Coleman. Nel mezzo tanto jazz italiano ed internazionale di alto profilo, (per i dettagli vi rimandiamo al programma completo) ivi comprese le sortite della New Talents Jazz Orchestra diretta da Mario Corvini, e della Jazz Campus Orchestra diretta da Massimo Nunzi, che sottolineano una quanto mai opportuna apertura alle nuove generazioni. Abbiamo avuto la fortuna di assistere al concerto della Mingus Big Band, in tour quest’anno proprio nella ricorrenza del centenario della nascita del grande Charles Mingus, figura gigantesca – del Jazz e non solo – della seconda parte del ventesimo secolo, la cui influenza è ancor oggi palpabile nell’espressione dei musicisti che si muovono nel solco della tradizione e dell’evoluzione della musica afro-americana.
La Mingus Big Band, nelle sue diverse declinazioni come Mingus Dinasty e Charles Mingus Orchestra, nacque dall’intuito e dal coraggio indomito di Sue Ungaro Mingus, la vedova del grande contrabbassista (recentemente scomparsa lo scorso 24 settembre a 92 anni) che, dopo la morte del Maestro (1979), volle che la sua musica continuasse a vivere attraverso l’eredità dei suoi discepoli, a partire da quelli che gli furano più vicini in vita, come Dannie Richmond, Ted Curson, John Handy III° e Jimmy Knepper. Nel corso dei decenni la formazione ha ovviamente subito una serie infinita di trasformazioni, mantenendo sempre fede al lascito artistico ed umano del grande Mingus. La Big Band che si è presentata sul palco della Sala Sinopoli dell’Auditorium davvero non ha tradito le aspettative, anzi, ha spesso lasciato a bocca aperta gli inossidabili aficionados intervenuti al concerto.
Già dalle prime note in apertura si è capito subito il livello della performance: sale sul palco dapprima la sola sezione ritmica, a supporto della tromba solitaria di Philip Harper che declama le sue note cariche di blues. Subito a seguire, come fosse una marching band, tutta l’orchestra soffiando nei corni esce in fila indiana dai camerini, sale le scale del palco e continuando a suonare prende posto negli scranni. L’impressione da subito è quella di una gioiosa e poderosa macchina da guerra, forte di tre trombe, tre tromboni (più basso tuba) e una sezione di cinque sassofoni, tra cui spiccano in veterani Abraham Burton, e due giovani donne, Sarah Hanaha al sax contralto e Lauren Sevian al baritono.
I brani più rappresentativi del grande repertorio mingusiano si susseguono dando l’opportunità a tutti i solisti di potersi mettere in mostra a rotazione. Ecco allora la sempre emozionante Sue’s Changes, con i suoi leggendari cambi di tempo e di umore, seguita dai cavalli di battaglia con il blues di So Long Eric –dedicato ad Eric Dolphy – seguita da Self Portrait in Three Colors, poi l’ironica All The Things You Could Be By Now, if Sigmund Freud Was Your Mother ed il gran finale, ineluttabile, della trascinante Better Git In Your Soul, con il doppio assolo dei due tromboni – Robin Eubkans e Conrad Erwig – accompagnati dal solo battito delle mani del pubblico in sala.
Nel meraviglioso bis spicca di nuovo il piglio sicuro della bionda e bravissima dei Lauren Sevian al sax baritono. Ci sarebbe ancora da elogiare i singoli componenti dell’orchestra, tutti indistintamente di altissimo livello, vogliamo solo ricordare una sezione ritmica di inusitata solidità, precisione e brillantezza, con una menzione particolare per il pianista Theo Hill, vera sorpresa della serata, il basso di Boris Kozlov, autentico perno della formazione, e la spettacolare batteria di Donald Edwards. Tra i fiati ci piace segnalare la presenza dei citati Robin Eubanks e Philip Harper, che si fregiano del marchio di nobiltà di aver militato nei Jazz Messengers, ed il trombone basso e bassotubadi Earl McIntire, che ha avuto l’onore di suonare fianco del grande Mingus.
Una serata quindi di grandissimo Jazz, con l’unica nota dolente di un’affluenza di pubblico leggermente inferiore alle aspettative, con la platea della Sala Sinopoli riempita a poco più del 50 – 60 per cento della capienza. Evidentemente Roma resta una piazza un po’ difficile, forse anche un po’ distratta dalla concomitanza e la dispersività dell’offerta complessiva degli spettacoli nella capitale.
MINGUS BIG BAND
Boris Kozlov basso
Donald Edwards batteria
Theo Hill piano
Alex Sipiagin tromba
Dr. Alex Pope Norris prima tromba
Philip Harper tromba
Conrad Herwig primo trombone
Robin Eubanks trombone
Earl Mcintyre trombone basso, Tuba
Sam Dillon sax tenore
Sarah Hanahan sax alto
Alex Terrier sax alto e soprano
Abraham Burton sax tenore
Lauren Sevian sax baritono
