// di Guido Michelone //

“Lo studio del jazz si muove su varie direttrici, non solo quella estetica e formale, altrimenti dovremmo pensare al jazz come un fenomeno musicale puramente ludico-evasivo… musica da ballo inventata dai “negri”, da varie minoranze etniche e promosso dalla lobby giudaico-pluto-massonica… proprio come dicevano durante il fascismo. La moderna musicologia ha fatto del jazz un fenomeno equiparato alla musica eurodotta, la sociologia e la politica ne hanno fatto anche un fenomeno storicamente rilevante, poiché connesso alla lotta per i diritti civili degli afro-americani e ad a taluni episodi legati alla cultura antagonista”. Così scrive Francesco Cataldo Guerrina in merito a una piccola querelle su ‘Jazz&Jazz’ dove due raffinati ascoltatori di jazz classico Rodolfo Varani e Salvatore Guglielmino, i quali non hanno gradito il mio paragone fra jazz e rave party: come già precisato, non si tratta di una paragone assoluto, ma solo di qualcosa di affine a certi periodi storici dai carnevali di New Orlans del primo Novecento alle estenuanti gare di ballo dell’era swing fino ai megaraduni pop tra fine Sessanta e inizio Settanta dove non è raro trovare Sun Ra, Miles Davis, Hugh Masekela, Charles Llyod mescolati a B.B. King, Jethro Tull, Allman Brothers, Jefferson Airplane, Ike & Tina Turner, eccetera, eccetera. Persino certe edizioni di Umbria Jazz come quella del 1975 quando la gente è accalcata fin sotto i piedi di Keith Jarrett in piazza Vannucchi oggi farebbero gridare all’assembramento di massa come il rave Party di Modena o l’adunata fascista al cimitero di Predappio, dov’è sepolto il Duce.

Come rispondere gentilmente, ma soprattutto con serie argomentazioni (rispondenti a dati di fatto e non ideologie o ideologismi) ai vari Varani e Guglielmino? Posso cominciare invitandoli ad ascoltare Franco D’Andrea, un pianista e un jazzman sul cui valore artistico-musicale spero non nutrano dubbi o perplessità, altrimenti è giusto troncare la civile discussione. Il nuovo disco Franco D’Andrea Meet DJ Rocca (Parco della Musica, 2022) è appunto confirmato dal tastierista meranese assieme al disc jokey emiliano: la dice lunga su come ormai la musica risulti un fenomeno globale dove pure il jazz è interessato alla cosiddetta club culture di cui i rave party sono forse la situazione più estremista. Ma i rave party non sono un corpo esterno alla civiltà umana come molti vorrebbero far credere: le origini di queste feste missive sono Lascaux, il carnevale, Woodstock, il jazz e molto altro. Per saperne di più, occorre effettuare una serie ricognizioni storico-critiche, da cui si possono prendere benissimo le distanze o rifiutarne i presupposti, ma con motivazioni scientifiche, evitando insomma spiattellando i propri gusti personali, mettendoli avanti tutto e tutti. Chiunque jazzofilo è libero, come fa Varani, di dire che non ama i Beatles e nemmeno il nu jazz o l’electro swing, ma non deve prevaricare i dati scientifici – in questo caso l’oggettiva esistenza ad esempio del nu jazz, amato e riconosciuto da molto pubblico – onde imporre la propria opinione soggettiva su quelle altrui.

Alla stessa stregua, ossia ragionando di pancia, qualche jazzofilo –come accaduto di recente su Jazz&Jazz può addirittura giungere ad affermare l’inutilità o il disprezzo verso teorie filosofiche applicate alla musica (che non nascono con Theodor W. Adorno o Leroi Jones, ma già con Platone e Boezio), ma gli autori di tali provocazioni dovrebbero essere ben consapevoli delle proprie responsabilità, giacché demonizzano o sviliscono intere categorie di studio che sono preparatissime a livello gnoseologico. Il jazzofilo che magari non è di larghissime vedute in ambito artistico-musicale può addirittura giungere a dire, sempre per giustificare qualche boutade, che la politica fa schifo, ma non fa un buon servizio né a se stesso né alla cultura, perché l’uomo – animale politico, come dice Platone, l’elemento differenziante dalla bestia – è colui che fa bella o brutta la politica ed esistono al proposito grandi uomini e grande donne nella politica di ieri, di oggi e forse di domani. E, dunque, per i rave party, i Beatles, la filosofia della musica, la politica non credo che in Jazz & Jazz servano osservazioni così superficiali, qualunquiste e alla fine sprezzanti verso i milioni di Italiani che vanno ai rave, ascoltano i Beatles, leggono di musica, si recano alle urne per votare in quanto liberamente convinti di qualcuno o qualcosa.

Quando Salvatore Guglielmino si scalda dicendo “Non azzardatevi a fare brutte commistioni con altri generi che non hanno ne avranno mai il soul che ha il jazz che parla si di rabbia e di sopraffazione ma anche di amore e di intimità”, si contraddice da solo citando una parola inglese, ‘soul’, che si riferisce a un genere afroamericano ben preciso che è alla base dei successivi sviluppi della musica black popolare, ovvero funky, disco-music, rap, hip-hop, house, techno, proprio quella suonata e ballata nei rave party: già il ballo, altro fil rouge che lega l’intero patrimonio sonoro neroamericano, ma che qualche cultore di ascolto settico di dischi jazz vorrebbe rimuovere o annullare. Il negazionismo del jazz politico assume quasi toni parassistici, ben evidenziati da una sintetica risposta dell’esimio Verrina: “Si descrivono fatti e accadimenti, talvolta anche eventi storici già consegnati agli annali. La storia non si cambia. Hai scritto: ‘Forse sarà una moda ma temo che vi siate del tutto bevuti il cervello’. Fammi capire [Guglielmino], tu che cosa stai cercando di difendere o di affermare? Se pensi che il jazz non c’entri nulla con la politica, ti sbagli di grosso. Non solo non conosci il significato di politica, che non è la Meloni contro Letta, ma è ben altra cosa, soprattutto ti mancano molti passaggi per comprendere la storia del jazz moderno, che in massima parte è politica ed è anti-fascista, anti-totalitarista, anti-stalinista, anti-nazista, anti-leghista, anti-maoista, anti-franchista, soprattutto il jazz è un antidoto all’imbecillità repressiva delle destre e dei populismi”.

Infine concordo ancora una volta con Verrina sul fatto che in America, il jazz attraverso una storia lunga quasi un secolo e mezzo (o addirittura quattro se si parla di sound afroamericano) non abbia precise colorazioni politiche e soprattutto, come tutte le arti, non vada rapportati a una suddivisione partitica o a un inquadramento ideologico, perché il jazz, sia esso hot, swing, bebop, cool, free o fusion “(…) non è di destra o di sinistra, almeno come molti coatti e disadattati italioti intendono questa suddivisione, ossia un’atavica lotta tra Guelfi e Ghibellini, oppure tra Orazi e Curiazi. Il jazz non ha nulla da spartire con tutto ciò, ma visto che l’argomento si sta intensificando con interventi raccapriccianti per la loro pochezza culturale, mi preme fare talune considerazioni: ad esempio il fatto che io abbia nella mia collezione molti dischi di Romano Mussolini, non mi mette nella condizione di assumere una posizione più morbida nei confronti del fascismo che considero una delle pagine più vergognose della storia mondiale, al pari del nazismo, del franchismo, dello stalinismo, del maoismo, della dettatura di Pinochet, quella dei militari argentini e via discorrendo; in seconda istanza, il fatto che sia esistito un Romano Mussolini jazzista, figlio del Duce, (del cui cognome lo stesso Romano si vergognò fino ad un certo punto della sua carriera, pubblicando come Romano Full, e solo dagli anni Cinquanta in poi si lasciò convincere ad usare il suo vero cognome) non rende il fascismo come il migliore dei mondi possibili per jazz et similia. Certi tentativi, ex-post di intellettuali disadattati come Marcello Veneziani, ossia non adatti al terzo millennio, ma piuttosto nostalgici di olio di ricino e manganelli, lasciano il tempo che trovano, soprattutto in merito al jazz che non è materia alla loro portata”.

Ciò detto, per concludere, invito sia Varani sia Guglielmino a leggersi (o rileggersi) due brevi libro, Il popolo del blues di Leroi Jones (Amiri Baraka) e Free Jazz Black Power di Philippe Carles e Jean-louis Comolli per aprirsi a una visione più ampia, evoluta, progressista, multistratificata del jazz medesimo.