// di Francesco Cataldo Verrina //
Magione è una tranquilla cittadina in provincia di Perugia, nei pressi del Lago Trasimeno. Nonostante abbia una zona commerciale ed industriale alquanto vivace, al borgo antico dominato dall’antico castello dei Cavalieri di Malta accade molto poco, specie a novembre, soprattutto non ti aspetti che qualcuno abbia organizzato un concerto di Idris Ackamoor & The Pyramids. Devo ringraziare l’amico Gianluca Giorgi, grande conoscitore della musica «consapevole» e dei «mondi possibili», nonché inarrestabile collezionista di vinili, per avermi svegliato dal torpore del jazz mainstream e trascinato fuori dal mio eremo casalingo: è stato lui ad informarmi dell’evento ed a portarmi fisicamente a Magione, passando a prendermi sotto casa. Il nome di Idris Ackamoor a molti non dirà nulla, ed io stesso lo avevo quasi rimosso.
Idris Ackamoor nasce come Bruce Baker il 9 gennaio 1951. Polistrumentista, compositore, attore e ballerino (insomma uno showman completo) ha legato la propria fama al gruppo The Pyramids, che egli stesso fondò all’inizio degli anni Settanta presso l’Antioch College in Ohio, mettendo insieme parte del Black Music Ensemble di Cecil Taylor, all’epoca suo insegnante. Con questa formazione variabile ed allargata iniziò a girare l’Africa ed il Terzomondo, aggiungendo progressivamente musicisti e nuovi strumenti all’organico, prima di stabilirsi a San Francisco, città scelta come base operativa, poiché all’epoca ricca di fermenti creativi e culturali. I loro primi dischi furono autoprodotti, in special modo «Lalibela» (1973), «King Of Kings» (1974) e «Birth / Speed / Merging» (1976) che, venduti solo ai concerti, ebbero tirature assai limitate, fino a diventare oggetti di culto fra gli appassionati. Il gruppo si sciolse nel 1977, ma Ackamoor nel corso degli anni lo riformò più volte. Nel decennio scorso, la Strut Records ha pubblicato due nuovi album del gruppo, «We Be All Africans» (2016), «An Angel Fell» (2018) e «Shaman» (2020), riaccendendo l’interesse per i Pyramids che hanno ripreso ad esibirsi in tutto il mondo, giungendo perfino nella tranquilla e sonnolenta Magione, oltremodo al Teatro Comunale, luogo dove solitamente, a detta degli organizzatori, si consumano eventi più classici e mondani.
Sul palcoscenico Magionese la composita band di Idris Ackamoor ha proposto una mix energico e muscolare, ma al contempo riflessivo, di afro-funk e free jazz implementato da un sax costantemente in fiamme e da un vellutato flauto da contrafforti lirici. Ed è proprio in questo contrasto che si sviluppa la «ragion d’essere» dei nuovi Pyramids, di cui resiste solo il vecchio front line costituito, oltre che dal sax del band-leader e dal flauto della di lui consorte, anche dalla chitarra e dal violino; mentre la sezione ritmica, basso elettrico, batteria e percussioni, è costituita da elementi più giovani aggregati di recente per le necessità del tour europeo. Gremita in ogni ordine di posti da giovani o relativamente giovani (nella media intorno ai trent’anni, molti i quarantenni/cinquantenni), la platea del teatro, forte di una notevole presenza femminile, ha applaudito ripetutamente e spesso accompagnato con il battito delle mani alcune irresistibili performance della band che si è presenta sul palco, e ne è uscita a fine spettacolo, in maniera del tutto desueta rispetto alla norma. I musicisti hanno fatto un serpentino giro passando in mezzo a pubblico, muovendosi ritmicamente come in una danza tribale ed accompagnandosi con piccoli strumenti a percussione.
Il pubblico è coinvolto e travolto dal ritmo, spesso incessante e irrobustito dalla giovane retroguardia che non perde un colpo: eccellenti gli assoli del bassista, a metà strada tra Stanley Clarke e Jaco Pastorius. Il tutto funziona a meraviglia, ottima la qualità ambientale del suono: l’acustica è perfetta. Soprattutto non importa se la platea conosca bene o no le loro canzoni e relativi significati. La musica risulta più immediata e meno impegnativa rispetto ai testi, basta fare attenzione alle parole di «When Will I See You Again» che, ispirata alle sparatorie di massa negli Stati Uniti, si sofferma sulla mortalità, la precarietà sociale e sui pericoli di trovarsi «nel posto sbagliato al momento sbagliato». Più sommessa ed intimista, «Eternity» dal sapore flessuoso e sahariano, in linea con la conclamata passione per l’Egitto di Ackamoor. Il gruppo snocciola con abilità le perle di un variegato repertorio, passando da «We Be All Africans», un insieme fluttuante di commistioni afro-jazz-funk, alimentato da un canto contagioso ed ostinato, per giungere alla struggente e melanconica interpretazione di «Silent Days».
Il lavoro al sax di Ackamoor, che suona sia il contralto che il tenore, rimane costantemente infuocato, riportando alla mente Pharoah Sanders, John Coltrane e perfino Charles Lloid; in special modo nei momenti di commistione con talune e sonorità tex-mex o simil-celtiche, contrassegnate dal violino, mentre la voce roboante del sassofono viene mitigata dall’elegiaca sonorità del flauto. Tutto il concerto è puntellato da corposi funk, intrisi di hard-bop e poliritmie africane, costellati da declamazioni vocali, caratterizzati da un mood di base e da una matrice sonora multietnica e mutevole. Quasi due ore di rutilante performance con un unico neo: il bis atteso, invocato da scroscianti applausi a scena vuota, ma non concesso. Nel complesso, per lungo tempo, quelle mura e quelle poltroncine di panno rosso sintetico trasuderanno delle vibrazioni di questo evento: Idris Ackamoor & The Pyramids, venerdì 18 novembre 2022, ore 21,45, Teatro G.Mengoni, Magione (PG).
