// di Irma Sanders //
Sorvoliamo sul concetto di capolavoro assoluto, anche perché il relativismo è ciò che mantiene in piedi l’idea di jazz da circa un secolo a questa parte; per compenso usiamo il concetto di lavoro esemplare, di unicum nato da una perfetta confluenza astrale, dall’allineamento perfetto di quattro satelliti maggiori, quattro personaggi che, a modo loro e nella giusta misura, hanno scritto alcune pagine importanti della storia del jazz moderno. «For Real» fu fissato su nastro il 17 marzo del 1958 al Contemporary Records Studio di Los Angeles e venne dato alle stampe solo tre anni dopo nell’agosto del 1961. Pur essendo registrato nel classico ambiente losangelino, potrebbe indurre qualcuno a pensare che si tratti della solita dimensione musicale di tipo West Coast, dai toni smussati e rassicuranti, un disco dall’andamento levigato, il solito cool-pop-finger finalizzato al puro intrattenimento ed avulso dalla complessità sonora e comunicativa del jazz di matrice afro-americana, quale fenomeno di esplorazione costante, sospinto da un perenne mutatis mutandis.
In verità questo album, per dirla con i filosofi, contiene due componenti essenziali, ossia «èpos» ed «èthos»; da intendersi come la forza epica, lirica dell’ispirazione collettiva, essendo un lavoro senza una vera e propria testa di serie, un band-leader, ma una sorta di all-stars inter pares. Sono presenti tutti quegli aspetti pratici ed applicativi, musicalmente parlando, che rendono un disco realizzato in un preciso contesto, un elemento universale in relazione alla sintassi del jazz più ortodosso. Pur essendo il pianista Hampton Hawes ed il batterista Frank Butler, più vicini per nascita alla scena West Coast, la presenza di un texano apolide come il sassofonista tenore Harold Land, spesso a contatto con alcuni nomi eccellenti della nomenclatura bop della East Coast ed il geniale bassista Scott LaFaro rendono la miscela sonora instabile, non prevedibile, ma creativamente eccelsa.
La prima linea, formata Hawes / Land, è a dir poco sorprendente. Un pianoforte spazioso e brillante con una sezione ritmica stretta e compatta intorno al coltraniano tenore di Harold Land, impediscono che il format sonoro scivoli nella melassa, disperdendosi nei languidi e struggenti tramonti dell’Ovest. «For Real» è certamente una delle più soddisfacenti performance discografiche di Hawes, che solo in parte viene additato come il band-leader, avendo curato gli arrangiamenti dell’album e per aver contribuito con tre composizioni su sei. Ogni elemento risulta equilibrato e comunicativo, i musicisti fungono ciascuno da perfetto incastro, alla medesima stregua dei tasselli di un mosaico.
L’allora appena ventiduenne Scott LaFaro consegnò alla storia uno dei momenti più riusciti della sua breve carriera di contrabbassista jazz, dal tocco nitido, energico e potente, forse ancora ineguagliato, il quale non vedrà mai la pubblicazione dell’album, essendo stato dato alle stampe due mesi dopo la sua tragica scomparsa. Questo ed altri motivi fanno di «For Real» una piccola gemma, che non dovrebbe mancare in nessuna collezione jazz che si rispetti.
