// di Marcello Marinelli //

PASSI AVANTI RADIOATTIVI: “STEPS AHEAD CON “MODERN TIMES”

Erano gli inizi degli anni ‘80 , per la precisione il 1984 e la contaminazione era già da un po’ presente nelle particelle aeriformi dell’ambiente fisico e musicale, perché essenzialmente la musica è una storia di contaminazioni. Contaminazione (termine che per la prima volta, in Italia venne coniato su un Lp dal Rovescio della medaglia, gruppo progressive che dà il titolo ad un disco del 1973, tutt’altro genere di contaminazione, ma quando sento parlare di contaminazione non posso non pensare a quell’album, della serie: abbiamo tutti dei trascorsi e delle contaminazioni di altro tipo da ricordare. Due anni dopo il disastro di Cernobyl Una nuvola di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore e ricadde su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pesantemente.

La contaminazione pare sia un destino ineluttabile in musica come nella fisica e nell’energia nucleare. Ora questa parola assume significati negativi o positivi a seconda delle circostanze e dei contesti, è il destino delle parole e del linguaggio. Per alcuni , i teorici del “puro” ogni forma di contaminazione è da aborrire, ma non esiste niente di puro in natura, per altri invece la contaminazione è la strada maestra. Gli Steps Ahead sono un esempio di contaminazione, non sono stati i primi ne gli unici. Una fusion di alta classe, a volte eccellente. Musicisti di straordinario valore come Michael Brecker, Mike Manieri, Peter Esrkine, Eddie Gomez esprimono ai più alti livelli l’idea di fusione. Per qualcuno è solo fusione a freddo per altri come il sottoscritto ci sono elementi di fusione da altiforni incandescenti L’assolo di Brecker su Radio-Active è uno dei più belli assolo jazz-funk che abbia sentito e per un bianco non è da poco. Siamo nel campo del jazz? Si ci siamo a pieno titolo, nonostante i ritmi e il beat non siano legati agli stilemi classici degli anni della “golden age”. Evoluzione o regressione? Semplicemente diversificazione. I generi e gli stili possono stare in relazione storica o estetica non necessariamente in contrapposizione frontale. Dimmi quanto sei contaminato o no e ti dirò chi sei. Ora però invoco la clemenza della corte e le attenuanti generiche.

SLY & ROBBIE-NILS PETTER MOLVAER CON -“NORDUB”

Jamaica e Norvegia due mondi così lontani geograficamente e culturalmente con tradizioni musicali agli antipodi s’incontrano sul terreno del Dub, una delle varianti reggae, approccio prevalentemente strumentale e elettronico della grande tradizione caribica, rivisitato e corretto infasesperimentale. Sly & Robbie, ( the riddim twins) la coppia più longeva di musicisti e produttori jamaicani che hanno suonato e collaborato con una miriade di musicisti e in contesti molto diversi gli uni dagli altri, senza perdere il loro tratto distintivo di beat afro caraibico, incontrano il trombettista norvegese Nils Petter Molvaer di area ECM, il chitarrista Eivnd Aarset, anch’esso norvegese e il DJ e musicista finlandese Sasu Ripatti alias Wladislav Delay. La miscela di questi suoni crea un impatto suggestivo di atmosfere di non semplice definizione. In precedenza il famigerato duo di Kingston aveva collaborato con jazzisti, per la precisione con Monty Alexander in un album del 2000, “Monty Alexander meets Sly & Robbie” una curiosa miscela di jazz reggae dove su un beat reggae si snodavano le improvvisazioni di stampo jazzistico, un incontro jazz musicale al 50% diviso tra reggae e jazz. Qui il contesto è assai diverso, l’incontro avviene su coordinate musicali che ricordano i lavori del Miles elettrico degli anni ’70 e ’80 a cui il trombettista norvegese è debitore in fatto di ispirazione, al pari della stragrande maggioranza dei trombettisti moderni.

Qui, forse c’è il nesso col mondo del jazz, se consideriamo jazz i lavori dell’ultimo Davis e qui i pareri sono alquanto discordi e per molti questo lavoro non ha nulla a che fare col jazz, parimenti alla collocazione del trombettista norvegese in area ECM, quindi per qualcuno non sarà affatto un disco jazz. Per quanto mi riguarda, essendo io un irriducibile ecumenico lo faccio rientrare in questo ambito, oppure imparentato da vicino col jazz, o se preferite un parente alla lontana, comunque ci ravviso dei punti di contatto. Non mi voglio impiccare con la definizione di questo lavoro, ma lo trovo un ottimo disco in cui l’interplay di nord Europa e jamaica produce una sintesi originale e di alto livello. Il beat dei “gemelli del ritmo” è possente, psichedelico e ipnotico, comunque un beat di stampo afro che si mescola superbamente con sensibilità nordeuropee di matrice bianca e qui sta la magia della musica che supera contorni e provenienze creando una sintesi tra mondi apparentemente lontani facendoli avvicinare e miscelare in maniera superlativa, almeno secondo il mio modo di intendere la musica. Sono particolarmente attratto da lavori nuovi ai confini del mondo e dei generi ma non fonderò nessun partito della contaminazione e non faccio proselitismo, offro la mia maniera di guardare la musica a cavallo del mio destriero e qualche volta lotto contro i mulini a vento, ma per fortuna la lotta contro di loro non produce effetti letali.

HERBIE HANCOCK & FODAY MUSA SUSO CON “VILLAGE LIFE”

Amo Miles Davis per tutto quello che ha fatto e poi perché ha “partorito” Herbie Hancock. In questo disco duetta con il musicista gambiano suonatore di Kora, lo strumento africano a corda di cui Foday Musa Suso è uno dei tanti virtuosi e insieme a Mory Kante e Toumani Diabatè tra i più conosciuti. Registrato a Tokyo nel 1984 e prodotto insieme a Bill Laswell aggiunge un tassello alla sua variegata produzione discografica. Siamo nella vita del villaggio globale, un afro americano, un africano gambiano a Tokyo, più globali di così si muore. Hancock suona lo Yamaha Dx-1 Digital synthesizer e lo Yamaha RX-11 Digital Drum Machine e Foday Suso la Kora e il Talking drum e voce, World music “ante litteram”. Non c’è la scansione jazz, è musica africana ma si improvvisa sulle note delle tastiere e della kora. Il menestrello “griot” o cantastorie Foday Musa Suso interagisce col tastierista in una specie di dialogo musicale multiculturale, le radici africane e la variante afroamericana, gli strumenti della modernità e quelli della tradizione insieme, diciamo una fusione riuscita e non a freddo ma una fusione a caldo, la Kora che arriva al “Kore”. Diciamo che quello che traspare da questo disco in quel villaggio immaginario la vita scorre apparentemente fluida e tranquilla e possiamo affermare senza ombra di smentita che “Village life is beautiful” almeno per tutto il tempo di questo bel disco..