// di Francesco Cataldo Verrina //

Ogni epoca ha la sua colonna sonora ideale, al netto delle canzonette che infestano l’airplay radiofonico. Alcuni prototipi musicali che, ricalcano l’idea di una società veloce, indifferente, anaffettiva, virtualizzata, si attagliano meglio di altri al contesto ambientale che ci circonda I grooves e le pulsazioni dell’era post-industriale, post-finanziaria, dell’epoca dell’incertezza scandiscono inediti modelli di vita, mentre la frantumata generazione Y o dei millennials, dei xennials, dei vecchi baby-boomers e dei migrant-analogici trovano tutte insieme il perfetto collante in un lavoro di sintesi che si agita tra nuova avanguardia e tradizione: «At First We Arrived» dei Three Peaks destruttura e bypassa l’idea di narrazione jazzistica giocata sull’interscambio perpetuo fra i musicisti, tentando un dialogo con le nuove tecnologie strumentali, attraverso sintetizzatori, campionamenti e macchine del ritmo. Il risultato è una «fiction» sonora in grado di delineare scenari predittivi.

In effetti l’album «At First We Arrived», nasce dall’esigenza di tre giovani virgulti, con profonde radici allignate nell’humus e nel vernacolo jazzistico, di sperimentare su una piattaforma contemporanea sonorità e forme espressive non convenzionali, varcando gli usuali confini timbrici e il tipico interplay del classico trio modello Bill Evans o Keith Jarrett. Il jazz come altare supremo del sacrificio improvvisativo rimane sullo sfondo, mentre il costrutto sonoro scivola sul piano inclinato di una fusion contemporanea, che riceve sollecitazioni e segnali da molteplici direzioni, e che adotta una narrazione espansa dai contorni dilatati, quasi filmici, come se la musica fosse accompagnata idealmente da una sequenza di immagini descrittive dello spirito dei tempi.

Roberto Gatto, decano della batteria jazz, con collaborazioni di livello mondiale, descrive tale esperienza in maniera alquanto suggestiva con un incitamento a proseguire sulla medesima strada: «La mia impressione, dopo un primo ascolto dei brani di questo CD, è stata quella di non riuscire a collocare la musica in una zona precisa e dare un’etichetta più o meno definita, come spesso siamo abituati a fare. Mi sento di dire che questo, per certi versi, possa essere un valore aggiunto, perché segno di originalità, cosa non sempre scontata. Un lavoro visionario che, seppure si muova in un versante in cui l’improvvisazione gioca un ruolo molto importante, mette in evidenza influenze progressive, electronic-music, rock e contemporary jazz. Qualcosa di decisamente interessante, fresco e coraggioso. Ho incontrato Cesare, Luca ed Alessandro diverse volte e conosco il loro percorso artistico. Con alcuni di loro ho anche suonato. Sicuramente tre musicisti di talento, considerando la loro giovane età. Auguro a loro una carriera ricca di avventure musicali stimolanti, senza mai perdere la curiosità di guardare avanti».

I tre titolari dell’impresa sono: Luca Giannini chitarra elettrica, Alessandro Bintzios contrabbasso e basso elettrico e Cesare Mangiocavallo batteria, sintetizzatori e campionatori. Il trio è guidato da batterista Mangiocavallo, giovane talento anche in ambito cinematografico, autore del film «Siegfriedsdorf Dixieland Band» presentato al Senato italiano nella Giornata della Memoria del 2020. Scorrendo le varie tracce, tutte farina del sacco del trio, ma composte singolarmente, si nota una differente impostazione, dovuta al background dei tre musicisti, anche se l’intelaiatura complessiva del costrutto è alquanto omogenea, collegiale ed uniforme negli assunti di base, almeno nel mood che sviluppa. Siamo di fronte ad un lavoro visionario in cui la mescolanza gioca un ruolo importante, subendo progressivamente l’influenza dell’elettronica del rock progressivo, del funk urbano e del contemporary jazz.

Ad esempio l’iniziale «Deputy Director G. Cole», a firma Mangiocavallo, si sostanzia come un commento sonoro di tipo filmico con l’obiettivo puntato su una metropoli decadente avvolta in uno stato di alienazione più che extra-terrestre, extrasensoriale. È un suono carico di suggestioni, dove una chitarra, foriera di fraseggi magnetici alla Bill Frisell, diventa la bussola orientativa e la guida principale, mentre i vuoti improvvisi sono colmati da un metronomico groove. «Two Watermelons» è uno spazio sonoro mentale allargato, tra meditazione ed inquietudine esistenziale, scandito in una dimensione pseudo-blues, che si srotola su tappeto progressivo quasi pinkfloidiano. «B.Patrol» scritta da Alessandro Bintzios, si caratterizza come un «cantico» urbano dall’umore mutevole, pronto a liberasi nel vuoto; solo nell’intermedio la chitarra accenna ad un movimento moderatamente acid-funk per poi abbandonare il campo e lasciarsi intorno un’atmosfera di sospensione quasi onirica. «Left Side Exit?», un bel punto di domanda, forse l’atavica ricerca dell’altra faccia della luna, metafora di ciò che non riusciamo a vedere o a capire. Un groove aspro e funkified offre alla chitarra la possibilità di disegnare riff ed ostinati a tratti frenetici.

«Intermission» è un breve filamento distonico che sembra procedere ad intermittenza rimanendo sospeso in un limbo di pensieri. «Il coccige», componimento scritto dal chitarrista Giannini, se la gioca molto sulle corde con acrobazie varie e con repentini cambi di passo e di mood. Titolo suggestivo, infatti il coccige è un osso impari e simmetrico, ultimo verso il basso della colonna vertebrale. In verità, bisogna pensare ad un movimento simmetrico e reiterato. Con «3 P» si ritorna ad una narrazione più scorrevole e cinematografica, con qualche momento di suspance ed accattivanti intuizioni melodiche. «Titles», composizione perfetta mentre scorrono i titoli di testa e di coda. Siamo all’interno di un film che sviluppa l’effetto di un tempo circolare, quasi virtuale, che collega passato e presente della musica e riporta il fruitore all’hic et nunc del della realtà del momento. Ottimo il walking di basso che alimenta sia la suggestione ipnotica che la percezione reale. «Arrival (Suite In Three Parts)» è un flusso sonoro in movimento, reiterato in maniera minimalista e senza eccessi, sia pur teso a creare almeno tre cambi di umore. L’Atmosfera appare mutevole e spalmata su un plateau sonoro contemporaneo, intimamente connessa all’hub del new jazz, ma non del tutto estranea a qualche divagazione free-form, specie nel tratto finale, fra tempo, contro tempo e cromatismi a tinte forti.

L’effetto positivo di «At First We Arrived» dei Three Peaks, pubblicato da AlfaMusic, è che descrive molto bene gli stati d’animo, talvolta distorti e dissonanti, della nostra epoca, ma al contempo diventa una catarsi liberatoria ed un nirvana moderno con effetti quasi terapeutici. L’idea vincente consiste proprio nella rappresentazione di un universo crepuscolare, fatto di creature vaganti ed aliene, che vedi attraverso uno schermo, con la consapevolezza che ciò che accade non ti riguarda e che puoi disconnetterti a tuo piacimento. Per contro, potresti sentire qualcuno che, per tranquillizzarti, con voce mielosa, ti dica che era solo un film. Personalmente, gli ho risposto: «posso rimetterlo daccapo, mi è piaciuto molto».

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