// di Bounty Miller //
Gli Afro-Americani hanno un primato ineguagliabile su i tutti gli stili musicali che hanno inventato: nell’ambito del jazz come della disco-funk, del soul, dell’hip-hop, molti dischi fatti dai bianchi, “la fottuta razza superiore”, sembrano sempre posticci, derivativi e, talvolta, perfino più precari in quanto a durata nel tempo. Ci sono, ovviamente, le dovute eccezioni, ma la disco-music è l’unico genere (o de-genere) nato dall’R&B in cui i neri hanno mantenuto sempre una superiorità ineguagliabile, dove il colore della pelle, il senso del ritmo e il timbro vocale erano (e sono) dei valori aggiunti, a prescindere. Storicamente, dalla generazione alla degenerazione il passo fu breve, specie con l’avvento dell’Eurodisco, dove le produzioni da laboratorio, pur assolvendo perfettamente allo scopo (riempivano le piste), musicalmente smarrirono presto quei connotati distintivi e genuini che avevano caratterizzato le prime creazioni americane legate ancora al soul-boogie ed al funk.
Senza dilungarci, ricordiamo che la disco-music nasce nella prima metà degli anni Settanta come fenomeno underground, rappresentando una sorta di rivincita di tutte quelle frange della popolazione statunitense (Afro-Americani, Ispanici e Italo-Americani), emarginate dal lauto banchetto del rock di consumo, bianco, decadente ed asservito all’airplay radiofonico e all’industria discografica, che per tutta risposta stava generando un fenomeno estremo come il Punk.
Nel 1998 uscì un brutto film con tante belle canzoni: «Gli ultimi giorni della disco» (nell’originale «The Last Days Of Disco») di Whit Stillman voleva essere una via di mezzo tra una «messa funebre commemorativa» ed un omaggio in chiave critica all’epopea del travoltismo. La pellicola, giunta in un momento assai inopportuno, proprio quando un certo revisionismo storico stava rivalutando e riabilitando, anche sotto il profilo storico e sociale, «quei ballerecci anni Settanta». In verità il film proponeva un’ottima colonna sonora con classici dell’epoca, una discreta track-list, tra cui figurava un omaggio alla più raffinata «meteora» di quegli anni, tale Alicia Bridges, suadente interprete di «I Love The Nightlife (Disco Round)» che con il suo primo singolo aveva magnificato il piacere della vita notturna fatta di balli, sesso promiscuo, incontri occasionali ed eccessi vari, passando da un locale all’altro. Una specie di movida ante-litteram.
Alicia Bridges, che nel 1978 irruppe sulla scena disco mondiale distribuendo in ampie dosi ammiccante sensualità e vibrazioni positive, tipicamente «soul», in netta contraddizione con una sorta di rigido assioma che voleva le canzoni «disco» interpretate da artisti di colore. Tom Moulton, il più acclamato produttore-arrangiatore bianco di musica nera per piste da ballo (inventore del maxi-single a 12 pollici ed artefice dei primi remix), sosteneva la tesi, che nella dance cantata dai bianchi mancasse la componente «soul», non era un caso che gli avveduti produttori Eurodisco, facessero quasi sempre interpretare i brani ad artisti colore. Forse perché nata ad Atlanta, nel 1953, nel profondo Sud degli States, dove si respirava «negritudine» ad ogni angolo di strada, che l’avvenente e procace Alicia un briciolo di soulfulness e di tradizione nero-sudista, riuscì ad infonderla in quel disco, che, al contrario, nella sua estetica formale sembrava realizzato per quartieri alti di New York.
Il debutto di Alicia produsse un rapido, ma altrettanto effimero successo, tanto da confermare le tesi dello scaltro Moulton. Probabilmente si poteva azzeccare una canzone, avere un’abbronzatura «soul» superficiale, ma se rileggiamo la storia, ci rendiamo conto che tutte le piccole e grandi regine della disco avevano la pelle d’ebano: non è un caso, se le piste da ballo siano lastricate dai cadaveri di starlettine da «una botta e via», reginette di una notte brava dalle mille sfumature di grinta, accecate dalle strobo e finite tutte nel dimenticatoio. Eppure, a parte la splendida «I Love The Nightlife (Disco Round)», l’album dal titolo «Alicia Bridges» è davvero un disco di pregevole fattura, realizato con dispendio di uomini e mezzi: chiunque si sarebbe aspettato un follow-up. Segnalatissima, in particolare, la graffiante «Body Heat», forse pensata, ascoltando certe produzioni disco-rock di matrice germanica. L’intero l’album si srotola tra le pieghe e di solchi del vinile come un godibilissimo e accattivante concept sonoro, impostato ed arrangiato secondo i parametri della cosiddetta «feel good music», tra timidi accenni di morbida dance da apericena come «We Are One» e «Break Away» con arrangiamenti alla Steely Dan e alla Gino Vannelli, o felpate progressioni melodico-armoniche da materasso ad acqua sul tipo «Self Applause», caratterizzate da un cantato finale alla Joan Armatrading.
La vera chicca dell’album è, però, «In The Name Of Love», un raffinato funk urbano con accenti jazz: roba da far invidia ai Crusaders. Al contrario, la corposa «City Rhythms», con venature profonde di southern-rock, e la blueseggiante «Broken Woman» sarebbero state perfette per la colonna sonora di «Mississippi Burnin’». Su tutto, una voce possente ed espansiva, dotata di grande armonia e duttilità, fino all’acuto più lancinante. Il madornale errore fu commesso dai discografici della Polydor (probabilmente, in preda al panico, perché in quel periodo si vendevano solo prodotti destinati alle discoteche. Commisero molti errori anche con Gloria Gaynor, gestita malissimo dopo «I Will Survive»), i quali vollero immettere in un circuito dance un album di tutt’altra fattura (per il solo fatto di contenere dei pezzi ballabili), assai articolato e con ben altre inclinazioni. Qualche anno più tardi, la ragazza di Atlanta tentò la carta pop-rock, ma senza alcun risultato apprezzabile. Pur non avendo minimamente inciso sulla storia o sull’evoluzione della musica popolare, «I Love The Nightlife (Disco Round)» campeggia in numerose compilation commemorative del periodo; inoltre viene annoverata tra le cento canzoni dance-oriented più belle di tutti i tempi, secondo una speciale classifica di gradimento pubblicata anni addietro da un periodico del settore,
