// di Francesco Cataldo Verrina //
Quando ritiro fuori dall’archivio la pratica Weather Report, non posso fare a meno di emozionarmi. Con il gruppo di Shorter e Zawinul ho un legame diretto ed ombelicale, per questo sono sempre reticente a scrivere e raccontare dei loro dischi. A mio avviso, ci sono molte zone d’ombra sull’importanza e sulla collocazione di questo super-gruppo all-stars. Una volta Woody Allen disse: «Ho un forte desiderio di ritornare nell’utero…di chiunque». Anch’io ho bisogno di ritornare nell’utero, dove sono nato: la fusion, quindi metto un vinile dei W.R. su uno dei miei tanti giradischi e mi lascio trasportare dai pensieri, schiacciato da una gravosa valanga di perplessità.
Ad esempio, potrei affermare, senza tema di smentita, che il loro quarto album in ordine cronologico, «Mysterious Traveller» del 1974, sia uno dei momenti più alti della storia del fusion-jazz, ma mi trattengo nel dare giudizi assoluti e definitivi, perché mi ritrovo tra le mani anche «Black Market» che, mio avviso, potrebbe essere descritto come un capolavoro di mediazione artistica e sonora, di equilibrio tecnico e strumentale, con buona probabilità, il disco più jazz del gruppo, anticipatore di un’usanza oggi piuttosto diffusa, ossia la ricerca della sintesi della world-music attraverso l’africanismo, senza disertare eccessivamente i dettami dell’afro-americanismo. In effetti «Black Market» è un disco terzomondista, esteticamente, solo nella forma, ma non nella sostanza. Su questi presupposti Zawinul imposterà buona parte della sua produzione futura come solista, ossia guardando al Sud del mondo, ma senza mai dimenticare l’America delle tante famiglie sonore, spesso miste ed allargate.
I Weather Report e le loro vicissitudini diventano assai divisivi per i sostenitori. Esistono delle vere tifoserie, coagulatesi in relazione ai musicisti che si sono succeduti nel line-up, ruotando intorno alle due divinità centrali, Shorter e Zawinul. Per alcuni fans, ad esempio, il periodo legato alla presenza del bassista Jaco Pastorius nell’organico della band sarebbe quello più geniale, esemplare e riuscito. Per tanto, sui Weather Report si addensano spesso alcuni dubbi, e nel giudizio finale, se definitivo, compare qualche vizio di forma ed anche di procedura. Se c’è un elemento da eliminare, quando si parla o si scrive dei W.R., quello è l’assolutismo. Giudizi definitivi ed inamovibili sono da evitare come la peste, anche perché risultano quasi sempre viziati dall’interesse o la simpatia per questo o per quel componente del gruppo.
Proviamo a farci qualche domanda: pur essendo stato Zawinul, quasi il demiurgo dei Weather Report, quanto pesò la presenza nel gruppo di Wayne Shorter, la cui portata storica ed artistica era superiore a quella dell’Austriaco che era un buon musicista fantasioso in terra straniera? Zawinul agiva da padre-padrone, sostenendo che certe scelte artistiche fossero determinate da esigenze pratiche: «ho una grande famiglia da mantenere e Wayne è sempre d’accordo con me. perché anche lui ha una famiglia numerosa da sostenere, dobbiamo vendere dischi e fare concerti». Va sottolineato che buona parte della nomea dei Weather Report, ancora viva nella memoria collettiva, sia legata al ricordo di Jaco Pastorius, pur non avendo questi suonato in tutti gli album, probabilmente neppure quelli più significativi del punto di vista dell’esecuzione collettiva. Addentrarsi nella giungla sonora dei Weather Report, in quel caleidoscopio cangiante di uomini e dischi, è come cercare di mettere un dito nell’occhio a un moscerino.
Fermo restando che l’individualismo virtuosistico di Pastorius attirava folte schiere di seguaci e curiosi ai concerti dei W.R. perfino quando gli altri musicisti sembravano paralizzati sul palco. Per questo, e non solo, quando si dice Weather Report molti pensano immediatamente al genio del basso elettrico, ma fu veramente cosi? Ad abundantiam, «8.30», doppio album registrato dal vivo, viene considerato da molti il capolavoro assoluto del gruppo e resta uno dei più popolari della loro discografia. Per altri sostenitori dei W.R., «8.30» del 1979 fu supportato solo da un buona campagna di marketing, mentre i lavori migliori della band sarebbero altri. Un passaggio importante: analizzando la diversità dei lavori dei Weather Report e la loro evoluzione risulta ad esempio, che «Night Passage» del 1980 sia un disco costruito da Zawinul, il quale sapeva fare di necessità virtù, intorno alla figura di Jaco Pastorius. Di certo, è l’album più funk del gruppo e più vicino a quella ricerca di groove, tanto agognata dallo stesso pianista austriaco a partire da «Sweetnighter».


Weather Report – «Tale Spinning», 1975
L’album in oggetto è la tipica «mescola» sonora del gruppo di Zawinul e Shorter, ma l’arte della mescolanza va oltre la solita ricetta. Se non è consentito parlare di capolavoro discografico, possiamo parlare di capolavoro di ibridazione chimica. Il sesto album di studio dei Weather Report, «Tale Spinning» del 1975, è il preludio a Black Market: ci sono tutti i prodromi di quello che viene considerato il loro album più ecumenico. L’elemento tipicamente jazz del disco è rappresentato dall’andamento ritmico; le parti melodiche e strumentali fuggono per territori inesplorati e terre lontane. Sentori di Africa, profumi di Brasile, l’innesto del basso in primo piano, quasi a voler disegnare cupe melodie, riportano il fruitore in una dimensione più metropolitana. «Man in the Green Shirt» è un samba-carnival elettrificato, sostenuto dagli ariosi tasti del piano di Zawinul e dal penetrante soprano di Shorter, il quale cede molto alle visioni del suo socio di maggioranza. «Badia» attinge dalle influenze del Nord e dell’Africa occidentale, mentre il suo terzomondismo etnico disperde come ceneri in mare aperto l’acre fermentazione del blues nordamericano. Shorter sembra disegnare ghirigori arabeschi, mentre la retroguardia rinterza in maniera pulsante. Sicuramente il valore aggiunto è costituito dal sobrio apporto funkiness del basso di Johnson, che aggiunge un sottotono quasi ironico.
E mentre la puntina consuma il solco, ci si rammenta che il jazz non era ancora del tutto in via d’estinzione. «Freezing Fire» viene trascinato dal basso che viaggia sul binario della fantasia come un treno espresso. «Five Short Stories» crea un’atmosfera fiabesca ed infantile che risucchia l’ascoltatore in un vortice di musica narrata senza parole. «Tale Spinning» è un album che attraversava la porta girevole del ritmo. Ispirato dagli spiriti della danza e della canzone tribale. Il gruppo elabora una seducente selezione di brani che si sono progressivamente calcificati nella memoria degli appassionati più di altri presenti nella variegata produzione Weather. Evitando l’assolutismo, «Tale Spinning» è il loro disco più riuscito dal punto di vista dell’equilibri strumentale e del collaborazionismo collegiale, mentre, musicalmente, si colloca su un livello piuttosto elevato, sia a livello di composizione che di ambientazione sonora. Sugli scudi: Joe Zawinul, tastiere, piano, organo, voce, xilofono; Wayne Shorter, soprano e sax tenore; Alphonso Johnson, basso elettrico; Ndugu Chancler, batteria; Alyrio Lima, percussioni.


EXTRA LARGE
Wayne Shorter – «The Phanton Navigator», 1987
Un album di Shorter che divide molto i suoi tradizionali fans: per alcuni rientra in quella fase di decadenza e di menopausa creativa che coinvolse il sassofonista nel post-report; per altri un piccolo gioiello di fusion moderna. Dopo aver lasciato i Weather Report, Shorter si tuffò in un mare di fantasiosa sperimentazione, seguendo la rotta della contaminazione fusion alla ricerca di una direzione. Il titolo dell’album è emblematico: «The Phanton Navigator». Shorter era sempre stato innamorato delle storie fantastiche, e dalla magia, sin dai tempi di «Speak No Evil». La copertina interna presenta addirittura una sorta di fumetto fantasy. Siamo nel 1987 ed i condizionamenti esterni dal sapore fumettistico e cinematografico sono notevoli. L’elettronica regna sovrana e le composizioni di Wayne usano un linguaggio condizionato da quell’idioma innestandosi su un nuovo terreno di coltura. Le linee melodiche sono ondulate ma contenute. Stu Goldberg, Mitch Forman, Jeff Bova e Jim Beard sfoggiano tutta la magia dei sintetizzatori, mentre la programmazione della batteria, sequenziata da una serie di «agitatori» di studio, sviluppa un ambiente ritmico alquanto ipnotico. A livello tecnico, il lavoro di soprano e tenore di Wayne è insolito, ma ben calibrato soprattutto in «Yamanja», il componimento più riuscito dell’album. Da segnalare la presenza di Chick Corea al piano in «Mohogany Bird» e di John Patitucci al basso, quest’ultimo anche in «Forbidden Plan-It».

