// di Gina Ambrosi //

J.J. Johnson – «Standars / Live At Village Vanguard», 1988

J.J. Johnson è stato il trombonista più influente a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta. Il suo stile originario evidenziava una tecnica più veloce per quello che era il metodo espositivo di un trombonista medio. In realtà, le prime volte dopo averlo sentito suonare, molti pensavano che usasse il trombone a valvole. Gradualmente, il suo modo di esprimersi subì un’evoluzione, approdando ad uno stile più spaziato e ricco di sequenze musicali, attraverso un’idea melodica che si ripeteva su note diverse durante i vari cambi di accordo. Registrato dal vivo nel luglio 1988 al Village Vanguard, «Standars» è il secondo di due album ricavati da una serie di esibizioni provenienti dal leggendario locale newyorkese. J.J. Johnson, considerato all’unanimità come il miglior trombonista jazz di tutti i tempi, all’epoca di questi set aveva 64 anni, ma si muove con l’agilità e lo spirito combattivo di un ventenne, sostenuto da una band compatta e perfettamente in sintonia che interagisce senza soluzione di continuità: Ralph Moore al tenore e al soprano, il pianista Stanley Cowell, Rufus Reid al basso e il batterista Victor Lewis, Il quintetto si misura con nove evergreen più «Shortcake» firmata del leader.

L’opener «See See Rider» subisce un trattamento melodico che crea un’atmosfera mingusiana, lo stesso bassista Rufus Reid ricorda molto il modo di suonare di Charles Mingus. Fra i tratti salienti dell’album sono da segnalare «Just Friends» e «What is This Thing Called Love», che grazie al soffio aperto e dinamico di Johnson assumono quasi dei nuovi connotati, a cui si aggiunge la forte capacità improvvisativa e l’innato senso del swing del sassofonista Ralph Moore. L’introduzione di «What is This Thing Called Love» utilizza l’ostinato reso famoso da Clifford Brown nella sua versione, ottimo l’assolo di pianoforte ed il supporto di Reid al basso e Lewis alla batteria, attraverso un groove calibrato e costante. «My Funny Valentine» riserva uno splendido assolo di trombone in sordina, insieme all’interazione quasi rilassata in stile libero tra tutti gli esecutor. La magia si ripete anche con «Misty» di Erroll Garner. «Misterioso» appaga la voglia di blues, facendo riemergere il talento melodico di Moore al tenore. La sua articolazione e l’impeccabile fraseggio, unitamente al suo tono avvolgente, dispensano calore con il sostegno della sezione ritmica che dalle retrovie fornisce un ritmo a temperatura costante. Intrigante e molto originale la versione di «Autumn Leaves», rispetto alle tante che infestano la discografia jazz. «Standars – Live At Village Vanguard» è un album senza tempo e dall’ottima qualità sonora, nonostante sia stato ripreso dal vivo.

J.J. Johnson – «The Trombone Master», 1989

Uscito per la CBS Jazz Masters nel 1989, l’album è una raccolta delle migliori registrazioni del periodo Columbia 1957-1960 di J.J. Johnson, all’epoca il trombonista per antonomasia, in grado di esprimersi a livelli elevatissimi, tanto che risulta impossibile enucleare i momenti migliori e i punti salienti di questo disco intitolato per l’occasione «The Trombone Master». Le nove selezioni sono tratte da quattro differenti album: una da «First Place» del 1957; tre da «Blue Trombone» del 1957, la cui title-track è un classico di 9 minuti con il supporto di Tommy Flanagan al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Max Roach alla batteria; quattro da «J.J.Johnson In Person» del 1958 e beneficiano della presenza di Nat Adderley alla cornetta, ed una da «A Touch Of Satin» del 1960. Tutti i pezzi sono di notevole spessore tecnico e di pregevole fattura esecutiva, ma vale la pena sottolineare, oltre al già citato «Blue Trombone» tratto dall’album omonimo, anche «Misterioso» e «What Is This Thing Called Love», prelevati da «J.J.Johnson In Person». «The Trombone Master» è consigliato agli appassionati di questo strumento poco praticato nell’era bop ed a quanti muovono i primi passi nel jazz, per cominciare ad avere una certa familiarità con il personaggio J.J. Johnson. Tutto il materiale, splendidamente rimasterizzato da tape analogico, è di sopraffina qualità audiofila.

EXTRA LARGE

Clifford Brown & J.J. Johnson – Get Happy, 1953 (Ristampa Jazz Images)

Resta sempre il rammarico per ciò che il genio inespresso, o parzialmente emerso, di Clifford Brown avrebbe potuto regalare al mondo dell’arte invisibile (così Duke Ellingnton definiva il jazz), se la sua breve vita non fosse stata stroncata anzitempo dalla malasorte. In questo album il giovane Clifford non è da solo, ma condivide il proscenio non con uno qualunque, ma con J.J. Johnson, forse il miglior trombonista della storia. Per verità storica bisogna aggiungere che al set non partecipò alcun «la-qualunque». Brown e Johnson furono supportati al piano da John Lewis, amico di Miles Davis, il quale aveva suonato il piano in «The Birth Of Cool», Jimmy Heath sax baritono e tenore, Percy Heat al basso e Kenny Clarke alla batteria. Registrato il 22 giugno del 1953 al Wor Studio di New York, le takes originali furono pubblicate per la prima volta dalla Blue Note su vinile da 10 pollici. Questa nuova edizione gatefold della Jazz Images, contenete dieci tracce dall’ottima resa sonora e con una superba copertina curata nei dettagli, non avara di contenuti, ricca di particolari e con immagini di alta qualità, costituisce certamente una delle migliori testimonianze della breve, ma intensa carriera di Clifford Brown. L’album venne inizialmente attribuito a J.J.Johnson, infatti Brown, nella prima pubblicazione, compare solo fra i sidemen.

In un’edizione in CD, lo stesso materiale è contenuto in un raccolta chiamata «The Eminent J.J.Johnson». Questa nuova pubblicazione rispetto all’LP originale contiene anche le alternate takes di «Isle Of Capri» e «Tumpike». Ascoltando attentamente, pur essendo Johnson all’epoca dei fatti più noto e caratterizzato come musicista, Clifford Brown gli ruba la scena: la sua tromba ha un’intensità da brivido, specie quando la band entra in modalità ballata. Il giovane Brown, con il suo modo carezzevole, flessuoso e spaziato, ma molto più ricco di note e sfumature, anticipava di anni, molte di quelle istanze sonore che lo stesso Miles Davis metterà in atto, mentre nelle partiture più concitate, velocità, ritmo e quadratura della voce strumentale sono da accademia del jazz. La sua morte prematura, alimentandone il mito,ha fatto il resto. Quello che oggi viene chiamato «Get Happy», attribuito a Clifford Bown in comproprietà con J.J.Johnson, rimane uno dei documenti sonori più interessanti della storia del jazz post-bellico.