Art Farmer – «Portrait Of Art Farmer», 1958
// di Francesco Cataldo Verrina //
In un decennio durante il quale vi fu una crescente divisione e suddivisione dei musicisti secondo ideali «scuole» di appartenenza, Art Farmer (votato come «nuova stella» della tromba nel sondaggio effettuato dai critici del 1958) aveva trovato una sua dimensione, mostrando una personalità forte, decisa e categoricamente fuori dal branco. Il trombettista non appariva per nulla disposto ad uniformarsi; per contro dimostrava di sapersi esporre alle varie correnti del jazz di quegli anni, senza mai esserne travolto, con un piede nella tradizione ed uno sguardo proiettato verso il futuro. Molti suoi colleghi in quel periodo si cullavano sugli allori: la scena era piuttosto affollata e non era facile emergere. Molti di essi apparivano alquanto prevedibili e scolastici, pur ostentando sicurezza; soprattutto, dopo aver trovato una situazione apparentemente comoda, ci si tuffavano a capo fitto; erano tutti ansiosi di essere accettati dagli altri, ma in maniera conformista.
Art Farmer, aveva lasciato il «pane sicuro» dell’Horace Silver Quintet dopo quasi due anni per unirsi a Gerry Mulligan, senza far rimpiangere Chet Baker, forse per quel suo modo elegante di suonare la tromba, molto più simile allo sbiancato stile West Coast che non all’hot-bop di matrice newyorkese. Essere al fianco di Mulligan significava un altro modo di concepire il jazz, soprattutto Farmer intendeva scoprire in che misura quella nuova dimensione potesse arricchire il suo bagaglio culturale. All’epoca, infatti, aveva avuto già un ampio ventaglio di esperienze, più di qualsiasi altro giovane trombettista, avendo partecipato a concerti e registrazioni sperimentali: nel 1957, al Festival delle Arti Creative della Brandeis University, fu un tassello importante dell’orchestra che eseguì opere di compositori classici e jazz; mesi più tardi, fu uno dei pochi elementi coesivi in «Fusion» di Teo Macero, opera ibrida eseguita dalla New York Philharmonic e da un ensemble jazz.
Nel frattempo, era stato una presenza costante in molte registrazioni funk-oriented a New York e spesso aveva trovato accoglienza nella sezione fiati di molte big band; in sostanza, era in grado, come Hank Jones, di soddisfare i requisiti richiesti in ogni incarico con grande versatilità, pur rimanendo fedele al suo modus operandi. A diciassette anni, a Los Angeles, Art aveva conosciuto Charlie Parker, ed era stato proprio Bird ad orientarlo verso la necessità di aprirsi sempre a nuove sfide. Art ne ricordava le parole: «Charlie disse di ascoltare chiunque (…) non dovevo eliminare nessuno limitandomi a concepire solo la sua persona come esempio su ciò che avrebbe dovuto essere il jazz. Mi disse, per esempio, che lui era in grado di suonare assoli di qualsiasi jazzista, nota per nota, di Coleman Hawkins o altri, ma che lo faceva per scoprire solo che cosa ci fosse in loro, non per copiarli. Mi mise in guardia: attento, devi assorbire da tutti, ma non suonare mai come nessuno altro!».
Art e il fratello gemello, Addison, arrivarono a Los Angeles per una vacanza. Erano nati il 21 agosto 1928 a Council Bluffs, Iowa e cresciuti a Phoenix in Arizona. Art aveva studiato pianoforte, violino e bassotuba, ma a quattordici anni cominciò a suonare la tromba. Dopo aver ascoltato la sezione fiati di Jimmie Lunceford restò affascinato dal jazz e da quelloc he sarebbe divenatto il suo strumento di elezione: la tromba. Questo il suo ricordo: «Volevo solo far parte di una sezione fiati come questa, in seguito sono diventato un solista perché le big band erano così poche e questo era l’unico modo per guadagnarsi da vivere.»
Rispetto a tutte le registrazioni precedenti, il trombettista fu molto soddisfatto di «Portrait Of Art Farmer» perché aveva avuto completa libertà nella scelta dei musicisti e del tipo di musica da suonare. Fu il suo vero appuntamento con la discografia, e non tradì le attese. Scelse Hank Jones perché diceva: «Per me Hank è il ragazzo più comprensivo con cui lavorare. Alcuni pianisti possono suonare solo in un modo, e se questo modo non è il tuo, sei nei guai. Hank nel modo in cui suona gli accordi dietro di te, non sembra dire: devi farlo, ma piuttosto se vuoi, puoi fare questo; se no, bello, fai a modo tuo». Lui sa cos’è un groove, cos’è il swing, ha suonato meglio in questa occasione che in qualsiasi altra sessione che abbiamo fatto. Mi ha anche sorpreso: sa davvero cosa può fare e dove sta andando». Roy Haynes, a lungo membro della corte di Sarah Vaughan e in precedenza legato a Lester Young e Charlie Parker, tra gli altri, aveva da poco lasciato Sarah per trasferirsi a New York, proprio quando venne registrato quest’album; fu una vera fortuna, da lì a poco si sarebbe unito a Thelonious Monk per un tour.
Per quanto riguarda i temi scelti: «Back in The Cage» è una composizione di Farmer. L’autore la descriveva così: «È un buon vecchio blues, i blues sono la cosa più libera che abbiamo nel jazz, puoi fare praticamente tutto quello che vuoi su di essi, non devi preoccuparti di suonare una nota che non va con un determinato accordo a condizione che la nota faccia parte di un’idea che abbia senso su uno sfondo blues. Per me il blues significa libertà più di qualsiasi altra forma espressiva, perché i blues sono più emotivi di qualsiasi altra forma musicale. Alcune persone suonano il blues come se stessero pensando solo ai chord changes, io no, perché fintanto che sono preoccupato per gli accordi, mi sento frenato, e per me è la sensazione di libertà che rende il blues insuperabile, ossia suonare ciò che sento e che mi piace sentire!». «Stablemates» di Benny Golson, in quegli anni, stava diventando uno standard tra jazzisti. «Penso che» – diceva il trombettista – «sia uno dei migliori brani scritti da uno dei nostri contemporanei, è una melodia disciplinata e ti dà qualcosa di inedito da suonare: non ci sono molti schemi di accordi solo per averne tanti e la melodia non è solo una di quelle con una lunga serie di ottave. È davvero una bella melodia; chiunque potrebbe cantarla senza dover tirare fuori sessanta parole al minuto!».
Art aveva ascoltato «The Very Thought Of You» alla radio e gli era piaciuto il trasporto emotivo con cui il cantante la interpretava, quindi decise di impararne la melodia. Farmer fu uno dei migliori melodisti della sua generazione. Così ne parlava: «Imparo le ballate suonando la melodia, come forse farebbe Tommy Dorsey, mantengo ogni nota secondo lo spartito e la suono finché non diventa parte di me come la mia spina dorsale, però quando improvviso, non lo faccio. Non posso suonare una nota esattamente come l’originale, ma posso sentire la melodia perché l’ho eseguita ripetutamente; dunque la suono fino a quando non sento che mi ha un po’ stancato in quel modo, quindi cambio ancora!». «And Now . . .» è un’altra creatura di Art Farmer, che egli commentava così. «È solo un’idea spontanea basata sui cambiamenti familiari, è bello iniziare a lavorare su qualcosa di simile per vedere cosa succederà, non sono proprio uno scrittore, quindi scrivo molto raramente dei nuovi cambiamenti, sono solo un musicista, quindi metto giù una linea, e poi vado!». «Nita» fu composta da George Russell. «Mi piaceva» – dice Art – «per la stessa ragione per cui piaceva a Benny Golson: gli accordi ti lanciano una sfida, e la melodia nel suo insieme è molto insolita; gli accordi si spostano in luoghi diversi da quello che ti aspetteresti e la melodia continua a girare, arrotolandosi su sé stessa. Non arriva mai alla «fine». Così finisce un coro e ne inizia un altro!».
La scelta di uno standard come «By Myself» scaturisce dal fatto che Art ne ammirasse la qualità costruttiva. Queste le sue parole: «Ho cercato di catturare la sensazione del testo. Mi piace la storia che racconta, quella di un gatto abbandonato dal suo cucciolo, che dice: bene, andrò per la mia strada da solo, affronterò l’ignoto e costruirò un mondo tutto mio. Forse è banale, ma mi piace. Crea tristezza, ma è una sensazione di indipendenza, non come alcune di quelle canzoni che implicano che stai per sdraiarti e lasciare che un camion ti rotoli sopra». «Too Late Now» è una melodia a presa rapida ma non scontata. Alcuni brani ad un primo ascolto potrebbero risultare un po’ banali, ma basta aggiungere qualcosa per renderli degni di nota. Il popolo del jazz, in generale, lavorava sulla melodia più di qualunque altro. Billie Holiday riusciva a «vendere» la melodia come una pietanza prelibata; Ben Webster e Miles Davis, per esempio, davano la sensazione di giocare con il costrutto melodico. «Earth», scritta da Farmer, è una composizione lineare, una spontanea improvvisazione su un blues standard, che cambia in progressione e ciò che viene fuori sembra creato all’istante.
Art Farmer è stato un artista, la cui curiosità non ha mai smesso di crescere: il senso di meraviglia, di competizione e di responsabilità verso i suoi sostenitori lo spingeva sempre ad anticipare tutto ciò che potesse scaturire di nuovo dall’esercizio meticoloso e costante sulla tromba, ed in seguito sul flicorno. Per questo ed altro «Portrait Of Art Farmer» del 1958 si sostanzia come uno dei dischi più seducenti della storia del jazz moderno.
