// di Francesco Cataldo Verrina //

I primi anni della carriera di Freddie Hubbard sono certamente i più convincenti. In quel lasso di tempo alquanto breve il trombettista concentro entusiasmo giovanile e predisposizione per naturale per l’hard bop, la pratica jazzistica per antonomasia a cavallo tra glia nni ’50 e ’60. Con l’avvento del modale, del free e di un jazz più cerebrale, Hubbard iniziò a perdere le coordinate del gioco, rischiando di smarrirsi in una selva oscura, per poi ritrovare la «diritta via» in età più matura, negli anni Settanta, dopo aver abbracciato generi di più facile impatto come il funk e la fusion.

Il fatto che molti dischi di Freddie Hubbard siano stati messi in circolazione molti anni dopo la registrazione ha creato un piccolo equivoco storico, che non gli rende giustizia, oscurando una parte decisiva della sua carriera, forse la più importante, ma ciò si comprese soprattutto quando album come «Here To Stay» vennero ascoltati e valutati senza condizionamenti con il senno di poi. Nello specifico la pubblicazione era prevista nel 1962, ma venne accantonato fino al 1986. «Here To Stay» fu un altro album Blue Note, potenzialmente seminale nel contesto hard bop, che non riuscì a vedere la luce del giorno dal momento della registrazione, fino al tardivo momento della pubblicazione.

Forse questo rifletteva le difficili scelte che Albert Lion dovette fare, troppo spesso, per mantenere a galla una piccola etichetta discografica indipendente, ma anche come il corso della carriera di tanti musicisti venne deviato ed alterato da talune opzioni aziendali: quello di Hubbard non fu l’unico caso. Al netto di ogni considerazione storica ed artistica, «Here To Stay» è considerato come uno dei migliori dischi in assoluto, non solo della carriera di Freddie Hubbard, ma di tutto l’universo hard bop di quegli anni. Va chiarito che, tra la seconda metà degli anni ‘50 e la prima dei ’60, vennero effettuate presso vari studi di registrazione, centinaia di sedute, molte delle quali furono date alle stampe successivamente in formati diversi da quelli stabiliti all’epoca dei fatti, talvolta senza il consenso esplicito degli interessati.

A differenza dell’ambiente pop-rock dove le registrazioni duravano settimane e mesi e gli investimenti erano notevoli, nel mondo del jazz il tutto avveniva in maniera rapida: la presenza in sala era abbastanza fugace, spesso con poche ore di prova. Le sessioni venivano realizzate in presa diretta, al massimo si fissava su nastro qualche take alternativa. Vuoi per la peculiarità del genere, vuoi per la bravura degli strumentisti che, in talune circostanze, mostravano un affiatamento fuori dal comune, il tutto procedeva in maniera alquanto spedita. Nel jazz, in massima parte in mano a piccole etichette indipendenti, era invece la fase successiva ad essere complicata, ossia la stampa, la promozione, la pubblicazione, che richiedevano grossi investimenti non sempre sopportabili.

In genere, se l’artista coinvolto in prima persona non era ancora affermato «commercialmente» o in ascesa sul mercato, soprattutto se, a registrazione ultimata, si presupponeva che l’ipotetico album non contenesse hit potenziali, il materiale veniva accantonato in attesa di tempi migliori. Per molti musicisti il consenso di pubblico e critica arrivava dopo qualche anno, quindi le varie etichette si precipitavano a monetizzare il loro vecchio investimento, editando lavori che spesso contrastavano con l’attuale situazione artistica, l’evoluzione sonora ed il nuovo livello tecnico raggiunto dai musicisti interessati: Coltrane fu uno dei più sfruttati da questo punto di vista. A posteriori, possiamo affermare che questa insana abitudine sia stata solo un bene, rendendo giustizia, almeno in parte, forse solo un piccolo risarcimento morale per quei tanti musicisti, di cui rimaneva un vuoto incolmabile ed una zona d’ombra, relativamente alla prima fase della loro carriera. La sessione imn oggetto ebbe una storia travagliata: lasciato negli scantinati delle note Blue per quattordici anni, il nastro venne stampato una prima volta in un doppio set in vinile insieme ad «HubTones»: un accoppiamento che non rendeva giustizia a nessuna delle due sessioni. Fortunatamente, un decennio dopo, fu immesso sul mercato come lo conosciamo oggi.

«Here To Stay» è un valido esempio di bop pronto-cuoci e nonostante Freddie Hubbard avesse solo 24 anni si caratterizzò come una «voce» già formata e matura per il jazz di quegli anni. Insieme a lui Wayne Shorter al sax tenore, Cedar Walton al piano, Reggie Workman al basso e Philly Joe Jones alla batteria, ai quali questo progetto offrì una piattaforma espressiva di notevole impatto, nonostante la conoscenza tra di loro fosse limitata, ad eccezione di Philly Joe Jones, con cui Hubbard aveva lavorato nei Jazz Messengers di Art Blakey. Il loro affiatamento risultò qualitativamente compensativo, ma fu soprattutto la tromba di Freddie Hubbard ad impressionare con un’inventiva sullo strumento davvero sorprendente.

«Philly Mignon», traccia di apertura composta da Freddie Hubbard, è uno scattoso hard-blowing basato su virtuosismi di tromba e sassofono, suonati velocemente. Hubbard irrompe sulla scena immediatamente dopo una rullata di tamburi, Shorter lo segue a ruota senza tentennamenti. Perfino il piano nell’interplay procede a passo marziale: Cedar Walton sembra aver subito il morso della tarantola, mentre le dita colpiscono i testi con «nera» avidità, creando una piattaforma per il lancio di tromba e sax, scortati fino alla chiusura del brano da una sezione ritmica che non fa sconti. «Father And Son», la prima delle due composizioni di Cal Massey, inizia come una leggiadra ballata blues con un andamento tipo samba, ma presto cambia umore sulla spinta della tromba e del sax, mentre il pianoforte gli consente una fluida transizione verso un blues quasi funkiness dal ritmo più deciso.

A seguire quella che forse è la traccia più riuscita, una raffinata riedizione dello standard di Johnny Green, «Body And Soul». Il confronto con la classica versione di Coleman Hawkins del 1939 e quella di John Coltrane del 1960, presente in «Coltrane’s Sound», non sminuisce affatto la bravura di Freddie Hubbard, che al contrario si fa apprezzare per un’interpretazione molto più moderna. Wayne Shorter suggerisce il tema iniziale, ma Hubbard ne cattura prontamente l’humus, dimostrando di avere una padronanza dello strumento non comune, anche nel fraseggio più lento, spaziato e delicato, quasi alla Miles Davis e con un gusto decisamente cool. L’altra composizione del giovane trombettista è «Nostrand And Fulton», sette minuti di bebop a tinte funk, con un perfetto e fluido battibecco fra tromba e sassofono, che si contendono la piazza in maniera quasi divertita, mentre il pianoforte e la retroguardia ritmica stanno al gioco adattandosi alle circostanze.

«Full Moon And Empty Arms» risale al 1946 ed è basato sulla melodia del terzo movimento del Concerto per pianoforte n. 2 in Do minore di Rachmaninoff. Fu registrato da Frank Sinatra, ma non venne molto apprezzato. Freddie Hubbard e soci, in qualche modo, riescono a rendergli giustizia, aggiungendo una colorata essenza di swing, corroborando una melodia fondamentalmente statica con qualche ricamato gioco improvvisativo. In sequenza tromba, sassofono e piano si muovono seguendo lo stesso fil rouge, mentre basso e batteria non hanno difficoltà ad intercettare i cambi di umore dei solisti. L’album si chiude con la seconda composizione di Cal Massey, «Assunta», dove Wayne Shorter sembra fare le pulci a Coltrane, ma funge principalmente da canale navigabile, finalizzato alla rotta di Hubbard che con un assolo fluente cambia il ritmo e la direzione della melodia. «Here to Stay» è la rappresentazione estetica, formale e sostanziale, dell’hard bop, forse uno dei più riusciti album di Freddie Hubbard, peccato che sia stato tenuto in naftalina per così lungo tempo, così quando venne immesso sul mercato, l’ortodossia bop era da tempo astata archiviata.