// di Guido Michelone //
Al rave non si fa jazz e nemmeno acid-jazz o techno-jazz o nu-jazz – benché qualcuno sostenga di ascoltare nel recente passato le improvvisazioni house-jazz – ma vietare il rave è anticostituzionale. Sarebbe come vietare di dipingere una donna nuda o di usare le parolacce in un romanzo, perché il rave ha una propria dignità artistico-comportamentale, il cui l’atteggiamento trasgressivo è un elemento cardine, un po’ come nel jazz la negritudine è una costante del fare musica. Il rave e i raver, come il jazz e i jazzisti, sono anche tante cose a partire dal modo di contestare la società attuale sotto diversi livelli.
Del resto, si potrebbe anche studiare il rave come l’ultima propaggine di una lunga serie di esperimenti sovversivi che metaforicamente trovano le proprie radici sia nell’iter evolutivo delle avanguardie storiche (teatro, pittura, ovviamente musica) sia nella ripresa degli stessi concetti avanguardisti riaggiornati in seno al ribellismo giovanile dal dopoguerra a oggi. Il rave porta avanti inoltre un’istanza ecologica, che non va sottovalutata. Si tratta dell’opzione di una sinistra anarcoide (non disprezzabile) contro l’abbandono dei capannoni industriali (in mano a mafie e/o speculatori) che inquinano e sottraggono terreno all’agricoltura. Con il rave quindi, con maggior o minor consapevolezza, secondo i casi, i giovani a loro modo richiamano l’attenzione sul problema ambientale che continua a essere trascurato e che forse è il più grave di tutti.
Ma per chi ama il jazz, magari non capacitandosi di come si possa tentare un raffronto fra i due mondi (rave e jazz), occorre ricanalizzare il caso emblematico dei Grateful Dead, gruppi seminale dell’acid rock e del cosiddetto Frisco Sound, che all’epoca (1967-1968) desta la curiosità persino di un compositore dotto Luciano Berio (il quale dialoga con alcuni membri della band) e ottiene l’attenzione di alcuni jazzisti, soprattutto di ascendenza free, per il modus con cui i sei hippy bianchi improvvisano, riuscendo a integrare nel loro rock psichedelico diversi stilemi tanto dell’elettronica colta quanto della new thing afroamericana. In tal senso, l’atteggiamento dei fan di San Francisco e dintorni (la Bay Area) verso i loro beniamini Grateful Dead è molto simile a quanto faranno i raver con la propria musica.
Infatti centinaia e poi miglia di giovani raver ante litteram tentano di seguire con ogni mezzo i concerti (spesso gratuiti) della band, dato che ogni esibizione diventa un autentico happening all’insegna dell’improvvisazione e della fratellanza, soprattutto per via delle sostanze enteogene circolanti fra pubblico e artisti; l’ordine dei brani in scaletta e i recital in forma di jam session e di intesa corale per Jerry Garcia, Bob Weir, Pigpen, Phil Lesh, Mickey Hart, Bill Kreutzmann mutano di sera in sera in maniera naturale spontanea, consentendo agli astanti di partecipare attivamente ai set, quasi come un momento integrante dell’atto performativo medesimo.
Del resto è l’intera Bay Area a brulicare di iniziative in grado di coinvolgere altri musicisti come i Jefferson Airplane e le migliaia di figli dei fiori convenuti da tutti gli States e da altre parti del Mondo. Tra il 1968 e il 1972 cresce insomma in California un movimentismo giovanile underground e controculturale in grado di lavorare su aggregazioni spontanee che lottano, con un impegno sociopolitico eterogenee, tra fughe misticheggianti e utopie radicali, contro un sistema poliziesco che impone divieti, leggi, controlli, repressioni (la stessa California è governata da tale Ronald Reagan); i liberi raduni servono quindi non solo a evidenziare difficoltà economiche e disagi sociali, ma anche a favorire un’idea di comunità e il piacere dello stare insieme (accompagnato ad esempio dalla liberazione sessuale).
Sull’onda della summer of love (1967) di San Francisco e del vicino Festival Monterey Pop, entrambi nel 1967, anche l’Inghilterra – che inventa la parola ‘rave’ già con il trad, ovvero il movimento del dixieland revival britannico, di cui il trombettista Mick Mulligan è il massimo raver, ossia pianificatore di ‘feste selvagge’ a loro volta ispirate dai poeti beat americani più o meno coevi – trova momenti aggregativi importanti. Dall’Union Jack arrivano le tre edizioni consecutive dell’Isle Of Wight Festival, la prima delle quali (1968) anticipa di un anno la grandiosa kermesse woodstockiana (non lontana da New York City), mentre l’ultima (1970) offre il debutto del Miles Davis in chiave jazzrock.
E così, nel 1972 – anche grazie ai British New Age Travelers – si organizza il primo festival gratuito nel Parco di Windsor, che subito viene interpretato quale atto simbolico oppositivo verso un territorio riservata da secoli all’esclusiva caccia della famiglia reale; ma nel 1974 il festival di Windsor termina a seguito di una dura repressione da parte della polizia, lasciando però spazio alla manifestazione altrettanto ‘libera’ (nel senso inglese di ‘gratis’) di Stonehenge, dove da allora si celebrano arte e musica di diverse appartenenze culturali che, di conseguenza, vengono liberamente fruite e condivise dalle nuove generazioni. Da ricordare che, all’inizio, tra il 1966 e il 1975, quasi tutti i megaraduni all’insegna del pop (come allora di fatto viene definito il rock sempre più sperimentale) coinvolgono anche numerosi jazzisti (nonché esponenti di gospel, blues, folk, soul, r’n’b, molti amati anche dai giovani europei) a loro volta propensi a incrociarsi con le nuove sonorità generazionali.
Il nomadismo dei raver trova infine ulteriori radici antropologiche, non industriali ma addirittura bucolico-agresti, quando, lungo i Seventies britannici, nasce un progetto definito “rurale”, dove ogni tipo di iniziativa deve avere luogo in un campo o sopra un terreno, costituendo quindi un “Peace Convoy”, movimento di stampo pacifista ed ecologico che viaggia – da cui il nome Travellers – mediante carovane di furgoni, camion e roulotte, spostandosi tra i diversi eventi culturali per le campagne dell’Union Jack. Purtroppo i governi conservatori di Margaret Thatcher ostacolano, spesso brutalmente quelli vengono definiti razzisticamente “crusties”, epiteto da loro accettato e ribaltato perché associano le croste dell’igiene a una sporcizia come deliberato abbraccio di stravaganze e quale netta dichiarazione di resistenza contro la società, a riprova del disagio nomade.
Oggi in Italia la dura repressione del nuovo governo (il più a destra mai avuto dai tempi della Repubblica di Salò) contro rave e raver non può non rammentare l’atteggiamento ostile del regime fascista, durante il ventennio, nei confronti del jazz che, all’epoca, sotto forma di swing, è la pop music del momento: è inutile arrampicarsi sui muri a dire che durante il fascismo in Italia ‘esiste’ jazz; certo ancora prima della Marcia su Roma, come tutto l’Occidente (e non solo) l’hot jazz viene ascoltato, copiato e suonato, ma con il trionfo totale di un’autentica dittatura, attorno al 1925, la parola jazz viene bandita pubblicamente e ricomparirà solo con la Liberazione da parte degli Alleati. Durante l’apoteosi dello swing, tra il 1935 e il 1941, Alberto RaBagliati e il Trio Lescano propongo (così come le orchestre di Pippo Barzizza e Gorni Kramer) musiche da ballo all’americana così come circolano alcuni dischi a 78 giri sia autoctoni sia americani, ma il punto non è questo.
Nonostante l’entusiasmo di una fetta degli allora giovani verso i ‘ritmi sincopati’, il fascismo non fa un bel nulla per favorire questa musica che non si sa più come denominare, arrivando via via a camuffarla, proibirla, mascherarla, perché il regime (a partire dal Minculpop, Ministero della Cultura Popolare) sa benissimo che il sound di Louis Armstrong, Duke Ellington, Fats Waller, Count Basie, Glenn Miller, Benny Goodman, resta sinonimo di libertà, che, a sua volta, è un concetto indigesto alle camicie nere. Con le leggi razziali (simili a quelle hitleriane) la situazione peggiora (un paio di jazzmen ebrei italiani finiranno nei lager, senza più tornare) e la Nazione si allena su quel concerto di ‘musica degenerata’ tanto caso al nazismo che poi accuserà il jazz di cospirazione negro-giudaico-massone-comunista.
