// di Francesco Cataldo Verrina //
In ambito jazzistico un album intitolato «Love Ballads», circoscrive un territorio ben preciso, soprattutto il fruitore medio, specie se si tratta di un sassofonista, si aspetta un morbida alcova sonora alla Ben Webster in cui acquattarsi o un comodo giaciglio alla Coleman Hawkins su cui adagiarsi, coccolato da melodie immortali e ad presa rapida. È convinzione largamente diffusa che un sassofonista di rango dimostri la sua vera tempra soprattutto nelle ballate, ma non sempre è così, nel senso che esistono le dovute eccezioni, specie se il sassofonista in questione risponde al nome di Maurizio Giammarco. Il Nostro usa un linguaggio narrativo più impervio e meno convenzionale, pur riuscendo ad indorare la pillola in maniera sublime, al punto da farla sembrare una Dolce Euchessina. Nel linguaggio jazzistico la «ballad» è una composizione lenta derivata o mutuata della musica leggera statunitense, il cosiddetto American SongBook, spesso ascrivibile ai grandi compositori come Gershwin, Porter, Rodgers, Berlin ed altri.
Ma facciamo un passo indietro: la ballata ha origini francesi, nacque nella zona fiamminga, ma si sviluppò particolarmente in Italia nel secolo XIII, dove godette di un’enorme popolarità fino al secolo XV. Nella sua forma antica rappresenta un componimento poetico di origine popolare, che collega canto e danza (detta anche «canzone a ballo»), pertanto era costruita metricamente in modo tale che le sue parti corrispondessero sia ai movimenti del ballo che ai motivi espressi del canto; più semplicemente, si potrebbe dire che melodia e ritmo dovevano essere perfettamente sincroni, ma non necessariamente lenti. E qui cominciamo ad avvicinarci all’oggetto del contendere. Dovendo accompagnare il canto ed un ballo circolare, la ballata possedeva le sue proprie regole ritmiche: era composta, quindi, da un ritornello di introduzione, seguito da una o più strofe chiamate stanze, cantate dal solista, e da un ritornello detto ripresa, fino ad una chiusura che riprendeva il tema iniziale. In fondo stiamo quasi descrivendo quella che è la tipica struttura a canzone dei componimenti leggeri, ripresi in massima parte dagli Americani. Come dire che i «maestri d’arme” in questioni melodiche, ludiche e sentimentali siamo noi Italiani.
Al netto delle attitudini dei jazzisti di abbeverarsi spesso al repertorio dei cosiddetti standard leggeri, nel caso di «Love Ballads» di Maurizio Giammarco e compagni, possiamo tranquillamente parlare di un album di ballate all’italiana, (pur provenendo il materiale da altre latitudini), dove alla componente squisitamente sentimentale si aggiunge anche un’aura di gioiosa danzabilità, che bypassa la classica «papettata» al miele millefiori. Giammarco al sax tenore e soprano, Art Lande al piano, Piro Leveratto e Roberto Gatto, (quartetto all-stars fatto di attori inter pares e di eguale peso specifico) si guardano bene dal creare un tappeto modello lounge music, evocando una sensazione di totale abbandono e rilassamento, ideale per amanti travolti da un insolito destino.
Ciò non significa che manchino i momenti di assoluta liricità e romanticismo, completi di passionalità esecutiva e di «sturm und drang» espressivo e poetico. Taluni classici come «Stella By Starlight» o l’iniziale «The Man I Love» trasudano di pathos e sono molto più intense, quanto meno più originali rispetto ad una pletora di cover calligrafe, karaokistiche e ricalcate con lo stampino. Nei due brani citati si notano già alcuni elementi distintivi: la retroguardia ritmica porta il tempo in un dimensione più frastagliata, adattandosi al fraseggio di Giammarco che non produce un vento caldo e sciroccoso com eun climatizzatore per ambienti, ma volte lancia delle folate più gelide e taglienti, che fanno pensare più all’idea della ballata coltraniana, con qualche strappo alla Archie Shepp, che non al classico guancia a guancia o «anema ‘e core»; perfino il pianoforte, a tratti, diventa più percussivo, acclimatando il gioco modale del sassofonista, ma sono solo suggestioni, poiché Giammarco non cade nel tranello di svolgere un compito ruffiano ed accomodante a prescindere. Diversamente, non si spiegherebbe come mai, dopo l’iniziale e moderato tributo al Gershwin di «The Man I Love», l’ensemble abbia scelto «I Love You» di Cole Porter calandola in un’ambientazione decisamente post-coltraniana e con una velocità da jam session bop.
Arrivati alla terza traccia si capisce che in questa imprevedibile sessione pubblicata dalla Red Records e prodotta da Sergio Veschi, il concetto di ballata assume un concetto più ampio. La terza traccia,»Lover Man» né è una conferma: il roteante flusso melodico-armonico del pianoforte di Art Lande ed il sax divincolato di Giammarco riportano alla mente il concetto di danza circolare, tipico dell’antica ballata italiana. Le frasi sono volteggianti ed il ritmo elevato, soprattutto nell’atto improvvisativo, la melodia viene rimodellata e forgiata con arnesi tutt’altro che convenzionali. L’arrivo di «Lover» ristabilisce un equilibrio climatico ed ambientale: si procede «lento pede», sbriciolando il costrutto sonoro su un terreno blues dai contorni affumicati. Una lunga odissea di oltre dieci minuti, in cui la dimesnsione crepuscolare rende il paesaggio quasi autunnale, mentre le note pungenti del sax soprano prima, e del pianoforte dopo, sembrano gocce di pioggia che lambiscono ritmicamente il terreno circostante, accompagnate dal lieve e spazzolato tintinnio della retroguardia ritmica. Perfino «In Your Own Sweet Way» di Brubeck sembra un’altra storia, l’atmosfera è più calda ed intrigante ed crescendo il solito cambio di passo alla Brubeck, piuttosto diventa una verticalizzazione ipermodale con forti tracce chimiche di dissonanza, mentre la scansione ritmica s’invola più verso una danza che non un canto melodico.
«Love Ballads», registrato il 28 novembre del 1996 allo Studio At Rambles di Roma, apporta nuovi elementi al concetto di tradizionale ballata jazz. I due componimenti originali a firma Art Land, «Thi Is Love Of Mine» e «French Love», confermano pienamente taluni assunti basilari del progetto. Il primo è un sollazzo pianistico, tutto ad appannaggio dell’autore, mentre il secondo, condiviso con soprano di Giammarco, rievoca ancora atavici languori coltraniani. Il finale è affidato ad un breve componimento, «The End Of Love Affair», quasi emblematico nel titolo, «la fine di un affare sentimentale», ma musicalmente, per quanto struggente sia la melodia distillata dal sax, il pianoforte gioca sul contrasto e sulla dissonanza. «È il 26 novembre 1996 – dice Maurizio Giammarco nelle note del CD – quando insieme a Piero Leveratto scambiamo le prime note con… un autentico genio del pianoforte. Art Lande sforna soluzioni sorprendenti sotto ogni profilo, melodico armonico e ritmico. Mi sono chiesto in seguito – continua Giammarco – se la creatività di Art abbia a che fare con l’aria tersa e mutevole del Colorado, il posto jazzisticamente improbabile dove egli vive». Esistono davvero pochi dischi di questo pregio e di tale fattura, giocati su un concetto distonico di ballata jazz non convenzionale, specie se si pensa al momento della sua pubblicazione, in cui il mood generale era poco favorevole ad un certo tipo di produzioni jazzistiche rispetto ai decenni precedenti.
«Love Ballads» è disponibile nel catalogo della nuova Red Records di Marco Pennisi. Per informazioni: https://redrecords.it
