// di Francesco Cataldo Verrina //

Insieme al fratello Michelangelo è stato uno degli inventori dell’Eurodisco con il progetto D.D. Sound. Produttori dei Righeria, Amanda Lear, i fratelli La Bionda hanno scritto per Ornella Vanoni e Mia Martini e suonato come session-man nei dischi di molti artisti italiani, tra cui anche Fabrizio De André. Mi piace ricordare Carmelo con questo profilo dei La Bionda e relativa intervista contenuta nel mio libro ITALO DISCO STORY.

Anche nel campo della «disco», come già era accaduto con il cinema western, gli artisti Italiani seppero, in un primo momento, dare un’originale interpretazione del fenomeno con saggezza, equilibrio e maestria. I D.D.Sound e i La Bionda, per importanza, stanno alla «disco music» come Sergio Leone sta al «western all’italiana». I due fratelli La Bionda, Carmelo e Michelangelo, nascono rispettivamente a Ramacca (CT) il 2 febbraio 1949 ed il 25 agosto 1952. Siciliani di nascita, ma cittadini del mondo artisticamente parlando, furono i primi ad avere successo nel campo della produzione «disco italiana», sia con la sigla La Bionda, progetto che abbracciava diversi stili e musicalmente più articolato, che sotto le insegne o poco mentite spoglie di D.D. Sound che essenzialmente ricalcava i classici stilemi dance del periodo.

I fratelli La Bionda seppero cavalcare l’onda anomala dello tsunami disco music, ma non possono e non devono essere ridotti al semplici artefici di «italo dance». Il loro background era assai ricco di esperienze. Essi iniziarono, infatti, l’attività in un teatro-laboratorio dove si sperimentavano innovative sonorità, debuttando al Festival di Avanguardie e Nuove Tendenze nel 1972. Dopo un periodo di attività in qualità di musicisti al soldo di altri, ossia come «turnisti» in sala di registrazione, collaborando con Mia Martini, i Ricchi e Poveri e Bruno Lauzi, diedero alle stampe un primo album «F.lli La Bionda Srl». Il disco venne pubblicato nel 1973 e da loro stessi auto-prodotto. I testi erano di Bruno Lauzi, mentre la musica scivolava su un tappeto sonoro prevalentemente acustico, modello «West Coast» con alcune partiture «progressive» in voga in quel periodo e altre idee più leggere e melodiche. Dopo una breve esperienza londinese, il cui frutto si concretizzo in un disco dal titolo «Ogni volta che tu te ne vai» realizzato nel 1974 presso gli studi della mitica Apple (l’etichetta dei Beatles), decisero di dare una virata e un cambiamento decisivo alla carriera.

La direzione del vento stava mutando, dagli USA cominciava diffondersi in tutto il mondo il fenomeno «disco», quindi armi, chitarra e vettovagliamenti in spalla si trasferirono in quel di Monaco di Baviera. La città bavarese si avviava in quegli anni a diventare la capitale della dance europea, attraverso un suono facilmente individuabile, definito «Munich Sound». In Germania, i fratelli La Bionda appresero il «nuovo mestiere» di e tutto ciò che li avrebbe poi consegnati agli annali della storia della musica. La concretezza teutonica e la creatività mediterranea gli consentirono di sviluppare un metodo compositivo originale, immediato, ma non banale. I loro pezzi disco iniziarono subito a fare il giro delle charts e delle discoteche di mezzo mondo. Alla freddezza del «Munich Sound» seppero aggiungere sonorità «disco» più calde, contaminandole con diversi elementi come il rhythm & blues e i ritmi latini e d una buona dose di melodia.

Nel 1977 nasce il loro fiore all’occhiello: il progetto D.D. Sound già con la prima release «Disco Bass», interamente strumentale, spopolò in discoteca, inoltre il pezzo venne adottato come sigla della «Domenica Sportiva». Da lì a poco, «1234 Gimme Some More», dal ritmo pulsante e travolgente, un gioiellino di disco-funk adolescenziale, fece la felicità di DJs e ballerini. Il successo fu ancora più straordinario. La loro musica incontrò, presto, i favori del pubblico internazionale, producendo un attivo di oltre dieci milioni di dischi venduti. Nel biennio 1978/1979, momento di maggiore aggressività mercantile della disco, i D.D. Sound collezionarono parecchi successi «She’s Not A Disco Lady», «Cafè», «Hootchie Cootchie». Il loro lavoro più riuscito, forse perché frutto di un’esperienza oramai consolidata nel genere, fu «Cafè», dove i La Bionda si esercitano in una sorta di «melting-pot» creativo, trasportando nella disco ritmi brasiliani e percussioni afro-tribali al fine di ottenere dai vari ingredienti una miscela di raffinatezza e puro «happening» in un avvolgente vortice di suoni.

In contemporanea all’esplosione dei D.D.Sound, Carmelo e Michelangelo pubblicarono a loro nome un discreto numero di hits, tra cui spiccano «One For You One For Me» «Bandido». Quattro gli album dati alle stampe: «La Bionda» (1978), «Bandido» (1979), «High Energy» (1979), «I Wanna Be Your Lover» (1980). A partire dal 1982, preferirono dedicarsi alla produzione per conto terzi e alla gestione del loro studio di registrazione milanese, il Logic Studios. Come produttori hanno firmato i più grandi successi dei Righeira, creando inoltre diversi famosi jingle pubblicitari per la TV, ad esempio «Sorrisi is Magic». Possiedono all’attivo diverse colonne sonore, fra cui alcune per i film di Bud Spencer e Terence Hill, attraverso l’utilizzo vari pseudonimi. Abbiamo parlato in radio con Carmelo e Michelangelo La Bionda, e questo è solo un frammento di una lunga e piacevole intervista.

Carmelo La Bionda

INTERVISTA

D. Quando uscì il vostro primo disco sotto il marchio D.D. Sound c’era un po’ di mistero, molti pensavano che foste Americani. Credo volutamente da parte vostra?

R. Il mistero abbiamo voluto crearlo noi all’inizio, perché cominciando a fare disco music, pur con un’ispirazione latina, pensammo che, forse, saremmo stati più accettati con un nome esotico. Magari qualcuno vedendo La Bionda, avrebbe potuto dire: mah, questi sono Italiani faranno schifo! Noi Italiani amiamo tutto ciò che arriva dall’estero, molto meno le cose fatte in patria, così, ci siamo detti: penseranno che siamo Americani. Subito dopo abbiamo capito che non era il nome che funzionava, ma la musica e ci siamo ripresi anche il nome La Bionda.

D. All’inizio voi avevate fatto anche delle produzioni cantate in Italiano, più sullo stile cantautorale, e con molti riferimenti alla West Coast Music?

R. Siamo nati, ispirandoci, a parte ai Beatles, alla West Coast, quindi da Crosby, Stills & Nash, Young a James Taylor, da Joni Mitchell a Cat Stevens, insomma era quello il genere. Infatti siamo partiti con canzoni cantate in italiano con l’importante collaborazione di Bruno Lauzi con cui facevamo gli spettacoli in giro, quindi quello era il nostro genere, diverso dal cantautorale classico, noi c’ispiravamo proprio alle strutture melodico-armoniche americane. Questo fu il nostro inizio, da ricordare anche la collaborazione con Mia Martini. Il tutto si trasformò nel tentativo di uscire da una «chiusura italiana» con i primi pezzi fatti in inglese.

D. Il disco a cui stiamo facendo riferimento, a proposito di Beatles, lo avevate registrato a, diciamo a casa loro?

R. Presso gli Apple Studios, proprio negli studi dei Beatles, quelli che loro avevano costruito nel «basement», nella cantina, che poi non era una cantina… nel palazzo della Apple Records. Il tutto nasceva dall’idea di George Harrison, il quale era convinto che la creatività andasse sviluppata in studio. Era i tempi in cui si passavano cinque o sei mesi a provare e riprovare per fare un album.

D. Oggi si fanno in tre giorni, quando va bene, anzi se c’è qualche intoppo?

R. Oggi si è quasi persa la figura del musicista di studio, il computer che avrebbe dovuto agevolare l’artista, ha finito per sostituirlo completamente!

D. Comunque, parliamo dei La Bionda e del loro primo impatto con la musica da discoteca. Ad un certo punto arriva «Disco Bass», sigla della prima domenica sportiva a colori. Che succede?

R. L’allunato Tito stagno, ricordate lo storico allunaggio? Poi Tito Stagno divenne direttore dei servizi sportivi della RAI, e siccome era un uomo preparato e sensibile a tutti cambiamenti, anche musicali, volendo dare una nuova veste alla Domenica Sportiva, partì dalla sigla, scegliendo intanto un grafico americano per la nascente computer grafica, quindi noi come autori della musica, visto che avevamo già una buona reputazione di sperimentatori e di ricercatori di nuove sonorità. In tutte le nostre precedenti esperienze avevamo sempre cercato di trovare nuove sonorità e soprattutto nuovi «suonatori»! Con noi, per esempio, aveva suonato Nicky Hopkins, un pianista di grande talento, purtroppo morto prematuramente nel 1994, che non era solo un semplice session-man, ma uno che aveva fatto «Angie» dei Rolling Stones, dandogli quel caratteristico suono. Nel progetto D.D. Sound c’era la nostra creatività italiana, ma vi si respirava un’atmosfera germanica, anzi internazionale. Monaco di Baviera, per via della base Nato e quel via vai di gente che arrivava da ogni parte del modo, aveva la capacità di mettere insieme una certa tipologia di musicisti, che quando venivano a suonare in studio, per capirci, suonavano «all’americana» ed era ciò che volevamo! Diciamo che noi avevamo il nostro modo di comporre, non scopiazzavamo, ma eravamo influenzati!

D. Monaco di Baviera in quegli anni era una specie di territorio franco per la musica, proprio grazie a queste basi Nato, e poi la presenza di musicisti di colore fu determinante, anche se l’Eurodisco possedeva caratteristiche differenti, poiché proprio a Monaco, e poi con l’italo disco in seguito, il prodotto dance europeo soppiantò quello americano, forse perché più moderno, non so se siete d’accordo?

R. L’italo disco, dopo un avvio folgorante, grazie alle nostre intuizioni, dimostrò che in Italia il fatto di essere troppo provinciali fu un limite e un errore. Bisognava sentirsi cittadini del mondo: la globalizzazione è un fatto recente, ma pensare in maniera universale avrebbe dovuto essere una necessità per chi volesse fare musica in quel momento. L’idea di proporsi «volutamente» in maniera internazionale avrebbe dovuto essere il desiderio di tutti. Adesso sentiamo delle produzioni schifosissime, che c’hanno ributtato quarantanni indietro. Gli americani sono sempre stati più legati al passato, nel senso che si appoggiano sempre alla loro tradizione. La Germania aveva già un certa collaudata propensione per al musica elettronica, quindi anche la disco music ne assorbì una certa dose, si pensi a Giorgio Moroder e all’uso dei primi sintetizzatori e sequencers, che poi non erano dei veri sequencers, ma il risultato di quella ritmica reiterata nasceva dell’uso di certi echi e riverberi… il fatto che pur avendo aperto noi la strada e dato delle indicazioni, non ci fu una vera evoluzione…

D. Sin dall’inizio, quando si ascoltavano i vostri dischi, e parlo del vinile, anche se confrontati con quelli americani o italiani, si sentiva che avevano qualcosa in più, c’era la cosiddetta «botta», si capiva che in Germania non si scherzava, insomma suonavano meglio sia per qualità che per quantità. Dov’era il segreto?

R. E sì, quando tu vai a leggere su credits dei nostri dischi, trovi Keith Forsey, che poi è stato produttore dei Simple Minds ed autore di «Don’t You Forget About Me», Jurgen Koppers, sound engineering di Giorgio Moroder e Donna Summer, un uomo di grande talento, tanto è vero che quando registrò il duetto tra Donna Summer e Barbra Starisand, quest’ultima gli chiese come era venuto, lui rispose: «it sounds like shit!», ossia «suona come una merda»…era gente che non ti perdonava niente, oggi è tutto alla «volemoce bene»!