// di Francesco Cataldo Verrina //

PREMESSA

In Italia è sempre stato difficile vivere di jazz, oggi come ieri. Ecco cosa raccontava Enrico Intra in una vecchia intervista: «Io sono un musicista di jazz a mezzo servizio con la musica leggera, come tanti altri, del resto. E come me ce ne sono perfino in America». Anche Franco Piana fa quasi le stesse considerazioni. Secondo il suo racconto, molti jazzisti in quegli anni avevano trovato posto nell’orchestra della RAI, quindi riuscivano a fare una vita dignitosa, portando in giro il jazz. Non va sottovalutato neppure il fatto che negli anni ’50 e ’60 in Italia non esistevano etichette discografiche specializzate in jazz, come accadeva in USA o in altri paesi europei più evoluti. Solo a partire dagli anni ’70 cominciarono ad emergere alcuni piccoli produttori indipendenti.

Una delle prime fu l’etichetta DIRE, che a partire dal 1969 iniziò a distribuire delle registrazioni su nastro. Nel 1976 arrivò la Red Records di Sergio Veschi e Alberto Alberti, caratterizzandosi immediatamente per l’alta qualità artistica e sonora delle produzioni, seguita a ruota, nel 1979, dalla Soul Note di Giovanni Bonandrini, nata da una costola della Black Saint di Giacomo Pellicciotti, la quale privilegiava soprattutto le avanguardie. Queste etichette ebbero il merito di offrire al panorama jazzistico italiano un’importante ribalta internazionale. Nel 1982 è la volta della SPLASC(H) di Peppo Spagnoli, che documenterà le varie realtà del nuovo jazz italiano, pubblicando i dischi di Paolo Fresu, Pietro Tonolo, Riccardo Fassi e Stefano Battaglia ma anche di alcuni veterani come Gianni Basso, Guido Manusardi, Giorgio Azzolini, Gianluigi Trovesi, Mario Schiano ed altri. La proliferazione fu inevitabile, segnando l’arrivo di altre piccole organizzazioni discografiche a minore diffusione; alcun ebbero vita assai breve. Tra esse segnaliamo la Ictus di Andrea Centazzo, la Gala Records, la CMC, la Cecma, la Pentaflower, la Bull Records e la Edi-Pan; altre ancora, come la PDU o la Voce del Padrone, affiancarono il jazz ad altri tipi di prodotti musicali. Infine, nel 1987, arrivò la Philology di Paolo Piangiarelli, etichetta il cui nome ed il rispettivo logo trovarono ispirazione in Phil Woods.

Basso Valdambrini – «Basso Valdambrini», 1959

Gianni Basso ed Oscar Valdambrini nel 1959 furono tra i massimi esponenti del jazz moderno italiano, con un solida carriera dietro le spalle, costruita con perseveranza sul filo di una coscienziosa preparazione. Entrambi piemontesi, ma molto determinanti per la scena jazzistica milanese. Come scriveva Arrigo Polillo sulle note di copertina: «Se non ci fossero Oscar Valdambrini e Gianni Basso, il jazz a Milano sarebbe molto diverso e certamente peggiore (…) anche per l’influenza esercitata sui colleghi, e per l’esempio che così hanno dato nei molti anni in cui sie è svolta la loro attività».

Un line-up omogeneo ed affiatato, con i due band-leaders perfettamente in armonia, quasi un incastro perfetto, un’escursione ritmica traboccante di swing, mai eccessiva, elegante nella forma e nella sostanza grazie all’apprezzabile l’apporto dei tre compagni di viaggio, tutti meritevoli di encomio e, in egual misura, necessari ed indispensabili all’economia dell’insieme. In quegli anni. in Italia. non c’erano tantissimi musicisti jazz di altissimo livello, e trovarne cinque, i migliori, tutti assieme in un medesimo disco, è davvero un lusso: Gianni Basso tenor sax, Oscar Valdambrini tromba, Renato Sellani piano, Giorgio Azzolini basso, Gianni Cazzola batteria.

Nell’album in oggetto risaltano immediatamente il feeling e l’intesa che intercorrevano tra due. La lunga consuetudine nel suonare insieme determinava un comprendersi istintivo ed un completarsi a vicenda. Tutto ciò ha certamente un peso specifico notevole, soprattutto analizzando le varie fasi del set, dove le varie tracce esprimono un elevato coefficiente di creatività e di tecnica esecutiva, a cominciare dai tre originali composti da Oscar Valdambrini: «Lo Struzzo Oscar», «Lotar» e «Chet To Chet». Classici italiani come «Parlami d’amore Mariù» e brani della tradizione americana, quali «Come Out Wathever You Are» e «Fan-Tan», creano un’intrigante mistura di umori cangianti e di emozioni policrome, mostrando in maniera lapalissiana l’altissimo standard qualitativo raggiunto dal questo Quintetto: formazione stabile con cui Basso e Valdambrini si esibivano abitualmente.

Il Basso/Vandambrini Quintet era un perfetto ensemble di musicisti di rango che avevano saputo trovare un dimensione internazionale, senza rifare il verso ai fenomeni o agli archetipi d’oltreoceano e senza annegare negli abissi del mare magnum del jazz moderno. In quegli anni, nella nostra penisola, il jazz era visto ancora come un fenomeno legato al ballo e al divertimento, privo di implicazioni sociali e culturali. Musicisti consapevoli delle loro possibilità, non comuni in Italia, Basso e Valdambrini erano in grado di coniugare una spiccata conoscenza della musica con un forte personalità, che gli consentiva di raccontare con chiarezza la loro visione del jazz, soprattutto con quella facilità e con quella chiarezza tipica di chi non ha dubbi o incertezze. La caratterizzazione del loro sound era tale da non aver il minimo bisogno di scimmiottare modelli preconfezionati provenienti dall’estero, anche se in quel loro soffiare, speso, levigato e disteso, erano presenti alcuni stilemi del West-Coast Jazz; per contro, in altri frangenti, una concitata e swingante pulsazione ritmica li avvicinava a taluni modelli bop tipicamente afro-americani.

Nei loro dischi si respirava la stessa atmosfera di molti prodotti americani, filtrata attraverso un giusto molto europeo, tipicamente italico. L’album si srotola su un lussureggiante territorio di note lungo undici tracce di breve durata, attraverso riffs concisi, assoli contenuti ed armonicamente impeccabili, improvvisazioni a controllo numerico e melodie a presa rapida. Il disco in oggetto costituisce un documento di estrema importanza, un punto di riferimento del jazz italiano, che in quegli anni sapeva guardare negli occhi le star americane, con rispetto, ma senza complessi d’inferiorità e con un orecchio teso verso un modus operandi del tutto caratterizzato e personale.

Basso & valdambrini

Sestetto Basso Valdambrini – The Best Modern Jazz In Italy, 1962

Per parlare di «Best Modern Jazz in Italy» si potrebbe cominciare dalla copertina che riprende una scena alquanto consueta, ossia dei musicisti in aeroporto intenti a volare verso una precisa destinazione, magari dall’altra parte dell’Oceano dove li attende una una serie d’impegni, fatti di serate, incontri e concerti. In verità Basso e Valdambrini ed il loro sestetto, nel 1962, furono vincitori di un’importante manifestazione jazzistica a livello nazionale, «The Best Modern Jazz in Italy» organizzata dalla Arden For Man. Il sestetto guidato dal tandem Oscar Valdambrini alla tromba e Gianni Basso al sax tenore ebbe uno straordinario successo di pubblico e di critica nella serata conclusiva del 9 giugno 1962 al Teatro San Marco di Milano, sbaragliando la concorrenza, tra cui figurava il consolidato Cerri-Intra Quartet. In quell’occasione venne offerto loro, come premio, un viaggio di andata e ritorno per New York su un aereo Alitalia ed una scrittura per una serie di esibizioni in USA.

Il titolo dell’album fu la diretta conseguenza del successo ottenuto in quell’occasione, ossia «The Best Modern Jazz In Italy 1962», che divenne presto un disco di riferimento per tutto il jazz europeo di quel periodo. Nei primi anni ’60 il Sestetto Basso Valdambrini rappresentava senza dubbio il miglior esempio di jazz italiano, un gruppo dinamico, che oltre ai due band-leaders si arricchiva con l’apporto di ottimi musicisti, quali Dino Piana al trombone, Renato Sellani al pianoforte, Giorgio Azzolini al basso e Lionello Bionda alla batteria. La lunga consuetudine a suonare insieme determinava un comprendersi istintivo ed un completarsi a vicenda. L’album è imperniato su una selezione di standard di Jackie McLean, Benny Golson, Dave Brubeck, Junior Mance e due originali tra cui un accorato omaggio a Coltrane, In «Best Modern Jazz in Italy», registrato a Milano nel giugno del 1962 in monofonia, che ne conserva quel sapore morbido ed antico, si respira la stessa atmosfera di tanti album americani, filtrata attraverso un gusto italiano, dove la predilezione per la melodia diventa forma e sostanza.