// di Gina Ambrosi //

Oscar Valdambrini e Dino Piana sono stati due dei “senatori” più stimati durante la grande stagione del Jazz italiano degli anni ’50 e ’60 Dino Piana è ancora attivo. Due musicisti che potevano competere con chiunque ed a qualsiasi livello. Valdambrini, torinese, nato nel 1924, si fece notare per la prima volta come valente trombettista nei primi anni Cinquanta. Nel 1955 diede vita al più famoso sestetto italiano; dal 1956 in poi fu coinvolto in vari quintetti con Gianni Basso, oltre a dare un importante contributo alla Big Band di Armando Trovajoli, tra il 1957 e il 1958; innumerevoli le partecipazione a festival e concerti e le collaborazioni con i più acceditati nomi del jazz mondiale di quegli anni: Chet Baker, Gerry Mulligan, Lars Gullin, Zoot Sims, Friedrich Gulda, Conte Candoli, Lionel Hampton, Duke Ellington, Maynard Ferguson, Buddy Collette e Kenny Clark.

Dino Piana, considerato il campione del trombone italico, è ancora attivo e discograficamente prolifico insieme al figlio Franco Piana. Dino arrivò sulla scena jazz, imponendosi come dapprima come trombettista durante il primo “Jazz Club”, una struttura per orchestre organizzata dalla RAI nel 1960. La crescente nomea come impeccabile professionista e l’acquisita visibilità pubblica lo portarono presto a lavorare con i più rinomati jazzisti del periodo, specie dopo il passaggio al trombone. Nato nel 1930 a Refrancore, in provincia di Asti, si fece apprezzare da pubblico e critica, esibendosi in prestigiosi eventi internazionali, divenendo membro di due importanti orchestre composte da alcuni dei migliori musicisti europei: a Stoccolma nel 1968 e ad Oslo nel 1974. Di alto livello le sue collaborazioni con personaggi illustri come Chet Baker, Conte Candoli, Gerry Mulligan, Maynard Ferguson, Frank Rosolino, Charlie Mingus, Gato Barbieri, Lionel Hampton e così via.

Valdambrini / Piana Quintet – “Afrodite”, 1977
In quel periodo Valdambrini e Piana, vivevano da anni a Roma ed erano considerati tra i maggiori esponenti del jazz europeo. La precedente collaborazione con Gianni Basso, in un ineguagliato trio di fiati, li aveva già consegnati agli annali della storia. Così, ancora una volta, nel 1974 decisero di unire le forze per dar vita ad un Jazz Quintet che potesse rappresentare una sfida ed uno stimolo per qualsiasi gruppo italiano di nuova generazione. L’operazione riuscì sia nella forma che nella sostanza: “Afrodite”, rimane un’altra pietra miliare del jazz italico, divenendo un raccordo fra la tradizione e le avanguardie. Affiancarono Oscar Valdambrini, tromba e flicorno e Dino Piana al trombone, Oscar Rocchi al piano, Giorgio Azzolini al contrabbasso e Tullio De Piscopo alla batteria.

I cinque brani registrati durante il set e firmati dai titolari dell’impresa, giocati soprattutto sul terreno dell’improvvisazione, mostrano le diverse caratteristiche dei due band-leader, ma anche i punti di confluenza. L’album si apre con “Arabian Moods” e la città dei suoni prende subito forma, infiammandosi sotto i colpi di una potente escursione ritmica. Imperniato su una scala dal movimento orientale, il lungo brano d’apertura alterna un battito in 3/4 ed uno in 4/4. L’incedere obliquo degli assoli sembra costruire un caleidoscopio sonoro in cui confluiscono differenti istanze e da varie angolazioni; “Drums Atmosphere” riprende un andamento più canonico, ma non scontato, sviluppandosi in un ambiente definito e delimitato da Valdambrini attraverso un movimento calante verso le tonalità più basse. I due fiati colmano alla prefezioni le voragini sonore create dal piano e dal contrabbasso; “Parkeriana” suggella la prima facciata del microsolco ed è un un tributo ideale ad uno dei maestri del jazz moderno, in cui affiorano alcuni degli elementi più caratteristici del bop.

La B-Side si apre con “I Due Modi”, così chiamato perché la prima parte del tema è basata su un beat africano, mentre quella centrale trasuda di swing, impostata in un 4/4 a doppio tempo; in “Palpitazione”, la sezione ritmica esegue un movimento costante, mentre il tema è meticolosamente capriccioso, quasi distorto, ma il tessuto melodico è assai accattivante, anche nella fase improvvisativa non fuoriesce mai dal tracciato stabilito; “Afrodite” è un pezzo dall’andamento felpato, un dialogo perfetto, un pacifico duello fra la tromba ed il trombone con un interplay da alta accademia del jazz. Oscar Rocchi, Giorgio Azzolini e Tullio De Piscopo costituiscono davvero una sezione ritmica di lusso, salvaguardando tutte le istanze di Valdambrini e Piana. Un disco di rara bellezza e senza complessi rispetto alle produzioni americane. Da aggiungere alla vostra collezione senza esitazione alcuna.