// di Francesco Cataldo Verrina //
La natura umana subisce sovente il fascino di quella che viene definita dagli psicologi «collisione tra arte ed eccesso». La storia degli uomini è lastricata di eroi romantici, generalmente vittime della stessa arte che praticavano e martiri a causa di una vita veloce, talvolta scapigliata e scapestrata condizionata proprio dal quel talento artistico che li aveva resi celebri e sul cui altare si erano immolati. Nel XX secolo l’eroe per eccellenza assume un tratto ancora più «maudit», e ce ne sono tanti specie nel mondo del cinema e della musica moderna. Egli, ossia l’eroe, non deve necessariamente aver vissuto una vita nobile, bensì un’esistenza piena di iniziali promesse, che finisce per essere stroncata da un overdose o per un eccesso di dipendenza da alcool, stupefacenti o sesso promiscuo e sfrenato. La lista sarebbe davvero lunga.
L’elemento collidente di cui sopra, consiste proprio nel fatto che mentre il pubblico, specie quello dei benpensanti, mediamente, non approva l’uso di sostanze illecite o l’ostentazione di atteggiamenti oltraggiosi per la morale comune, il fascino di tali personaggi ha finito per soggiogare ogni pre-concetto, lasciando ai più attenti il compito di scoprire che cosa spingesse talenti così prodigiosi a comportamenti tanto estremi. Il giovane Morgan era quanto di più lontano si possa immaginare da uno stile di vita dissipata e negletta. Il padre, la madre e la sorella, tutti musicisti dilettanti, erano assidui frequentatori della chiesa ed avevano fornito al talento di famiglia un solido sostegno educativo e morale. Lee era uno studente modello ed un abile pianista: si avvicinò alla tromba solo all’età di 13 anni, bruciando tutte le tappe, tanto che, pur frequentando ancora le scuole superiori, divenne presto un habitué della vivacissima scena jazz di Filadelfia.
Lee Morgan cadde presto nelle spire della dipendenza: Art Blakey ed il suo entourage facevano proseliti. Le regole, a parte quelle musicali, erano le non regole; soprattutto in quell’ambiente era difficile sfuggire a taluni eccessi. Ad un certo punto, ci fu anche una sottile complicità da parte del pubblico convinto dell’assioma: jazz uguale eccessi o hard-bop uguale nero-drogato. La concezione parkeriana che gli stupefacenti ampliassero lo spetto percettivo, moltiplicando la sensibilità dell’individuo «strafatto» verso la musica e, nella vulgata, l’insana idea che facendo uso di narcotici tutti i musicisti potessero suonare come Bird, disseminò il cammino del jazz moderno di molti cadaveri, talvolta neppure eccellenti.
Nella biografia «Lee Morgan: His Life, Music and Culture», Tom Perchard, professore di musica alla Goldsmith’s University di Londra, racconta che quando il trombettista ed il pianista Bobby Timmons entrarono a far parte dei Messengers, Blakey disse loro: «Vi farò accendere in due settimane». E mantenne la parola. «Art Blakey era famoso per questo», raccontò un musicista anonimo citato da Perchard. «Era il modo in cui pagava molti ragazzi. In altre parole, dava loro la droga e quando era il momento di incassare (dopo un concerto), si prendeva tutti i soldi lui». Un altro biografo di Morgan, Jeffrey S. McMillan, in «Delightfulee», cita Kiko Yamamoto, riportando le parole della modella e ballerina che Lee aveva sposato a Chicago dopo un corteggiamento di due settimane: «Era una brutta dipendenza la sua. Alcune persone come Art, per esempio, l’hanno sempre controllata, non ha mai preso il sopravvento sulla loro vita».
Lee Morgan per ben due volte aveva rischiato di essere precipitato prematuramente nell’Ade a causa del consumo sfrenato di sostanze psicotrope, ma se l’era scampata un attimo prima che accadesse l’inevitabile, salvo essere poi reclamato nell’aldilà da un pallottola sparata da un calibro 32. Per uno strano gioco del fato, il trombettista viene stroncato per mano di una donna, la sua compagna, la moglie mai sposata legalmente, Helen More, colei che diceva di amarlo e che lo aveva curato, soccorso, protetto e, per alcuni periodi, tenuto lontano dal quel coacervo di drogati e spacciatori che pullulavano negli ambienti jazzistici. Helen lo seguiva nei concerti e si comportava come un cane da guardia, tentando anche una riabilitazione del marito ed un affrancamento dalla tossicodipendenza. Questa donna, più anziana di lui, quasi una madre protettiva, fu vittima di altro eccesso che distingueva il jazzista tipo dei quegli anni: il sesso sfrenato e la ricerca continua di giovani amanti. Amori veloci ed amplessi che si consumavano spesso nel retropalco dopo un concerto o nel bagno di un club. Per Helen More, la gelosia, altra disfunzione nervosa del genere umano, accrebbe di giorno in giorno, come un cancro che le divorava il cervello, tanto da superare ogni istinto di protezione nei confronti dell’amato bene, al punto da desiderarne la morte. Forse ci troviamo di fronte alla cronaca di una morte annunciata.
È il 19 febbraio 1972, Lee Morgan deve esibirsi allo Slug’s Saloon di Manhattan, nel tragitto però perde il controllo della sua auto e va a schiantarsi sul marciapiede, ne esce illeso ma la macchina è fuori uso ed allora, prende la sua tromba e raggiunge a piedi il locale. Morgan appare molto scosso, forse gli è tornata alla mente la morte del suo mentore Clifford Brown. Molti oscuri presagi attanagliano la sua mente in quella gelida notte newyorkese. Dopo la mezzanotte, i musicisti sono pausa, mentre sulla porta del club compare la figura di Helen. La donna è arrabbiata e sconvolta: per l’ennesima volta il suo compagno se la sta spassando con una puttanella di turno. Volano parole pesanti, nasce un litigio furente. Lee la prende per un braccio e la spinge fuori dal locale facendola cadere nella neve. Lei si rialza di scatto, tira fuori una pistola e gli spara senza esitazione. Basta un solo colpo: il trombettista cade subito a terra., ma è ancora vivo in una pozza di sangue. I soccorsi tardano ad arrivare a causa delle avverse condizioni climatiche. Il musicista di Filadelfia morirà dissanguato: aveva solo 33 anni.
EXTRA LARGE


Lee Morgan – «Presenting / Indeed», 1957
Lee Morgan fece il suo debutto discografico a soli 18 anni, mostrandosi immediatamente come un improvvisatore maturo con un suono e uno stile ben definito. Quando il giovane trombettista approdò alla Blue Note aveva assorbito e metabolizzato velocemente la lezione di Clifford Brown, morto pochi mesi prima che egli entrasse in studio con questo album di esordio. Buona anche la prestazione dell’altoista Clarence Sharpe grazie al sostegno di una sezione ritmica all-star, magnificata dalla presenza Horace Silver al piano, Philly Joe Jones alla batteria e Wilbur Ware al basso.
Da ogni singola nota di «Presenting/Indeed Lee Morgan», registrato al Van Gelder Studio il 4 novembre del 1956, si può facilmente evincere che il trombettista non fosse un semplice absolute beginner ai primi vagiti, ma un ottimo musicista con le idee chiare, il quale sarebbe presto diventato uno dei più influenti trombettisti hard bop, colmando l’enorme vuoto provocato dalla perdita di Clifford Brown. Questa prima seduta, nota sia come «Presenting Lee Morgan, che «Indeed!», mette in luce la precoce fioritura di uno dei tanti talenti emersi in casa Lion, contraddicendo un luogo comune, il quale vorrebbe che la maturità e la qualità nel jazz siano sempre e solo ad appannaggio di gente attempata.
Certamente il giovane Morgan non possedeva ancora la magniloquenza sonora, quasi aristocratica di Clifford Brown, le sue esposizioni sembrano più furtive, forse pensate all’ultimo momento. Ciononostante il giovane trombettista non tradisce alcuna debolezza o indecisione. Certi assoli pur avventurosi, non denotano alcuna insicurezza, soprattutto dalla sua tromba zampillano vitalità e lirismo. Tra i momenti migliori dell’album sono da segnalare «Reggie of Chester» e «Stand By» di Benny Golson. Le prove successive offriranno buoni margini di miglioramento, ma «Indeed!» è certamente un disco da tenere in considerazione.
Lee Morgan & Conte Candoli – «Double Or Nothin’ », 1957
L’ampia produzione di Lee Morgan per l’etichetta Blue Note, che comprende circa 25 album, riemerge ciclicamente come un’eredità inattesa per tutti i cultori e agli studiosi dell’hard-bop. In soli dodici anni anni, il trombettista di Filadelfia aveva costruito e ricostruito una carriera, più volte deragliata a causa delle dipendenze, con un cospicuo numero di opere di varia importanza (non tutte Blue Note), ma che rappresentano l’essenza stessa del jazz moderno. C’è perfino un album dal titolo vagamente infingardo: «Double Or Nothin’» non è un duetto e neppure un duello, soprattutto dalla foto di copertina si potrebbe avere l’impressione che sia una sorta di «contest» sonoro tra Conte Candoli, potente feudatario del jazz del Pacifico e Lee Morgan capitano di ventura e vessillifero dell’hard bop newyorchese, ma non è così.
I due titolari dell’impresa suonano insieme solo su due tracce, per il resto galoppano autonomamente in separata sede. Ciò non sminuisce minimamente la validità di questo disco, che in qualche maniera sviluppa una sorta di condizionamento indiretto, stemperando gli eccessi focosi di Lee Morgan, e ravvivando la fiammella semifredda di Conte Candoli. In quei giorni la big band di Dizzy Gillespie passava dalle parti della West Coast, per cui alla Liberty tentarono varie ibridazioni tra musicisti dell’uno e dell’altro mare del jazz. «Double Or Nothin’ », registrato nel 1957 negli studi della Liberty Records di Hollywood, a parte il titolo simulatorio, giocato sull’idea del doppio scontro al vertice, è un album di prima scelta, musicalmente impeccabile, disteso sul bagnasciuga della Costa Occidentale, rilassato ma non troppo, mosso ma non agitato, che si pregia anche di alcuni colpi di genio di Frank Rosolino e Benny Golson. Dal canto loro, Candoli e Morgan risultano entrambi in grande spolvero. Quando scendono sul terreno condiviso nessuno dei due appare intimidito dall’altro, non c’è competizione muscolare, esposizione pirotecnica, ma solo una perfetta e piacevole confluenza di differenti scuole di pensiero.