// di Francesco Cataldo Verrina //
«Dances» di Gianluigi Trovesi fu un disco visionario che, in quel particolare scorcio di anni Ottanta, aprì orizzonti inesplorati al jazz italiano; soprattutto fu anticipatore di quello che sarebbe stato in seguito un modus operandi molto diffuso nel nostro paese, ma in Europa in generale, adottato da una folta schiera di epigoni. Siamo nel 1985 e Gianluigi Trovesi vinse il referendum Top Jazz indetto tra i lettori di Musica Jazz e Musica & Dischi come autore del miglior album jazz di quell’anno.
Il Trio guidato da Trovesi, sax soprano e contralto, clarinetto basso e clarinetto, con Paolo Damiani contrabbasso e violoncello e Ettore Fioravanti batteria, svilupp un album concept incentrato sul tema della danza e del folklore europeo. Le atmosfere rarefatte e sospese, ispirate idealmente alla tradizione vengono trapiantate in contesto neo-avanguardistico a vocazione free, anche se il costrutto sonoro non deborda mai nelle terre abitate da terrificanti mostruosità sonore. L’intero parenchima sonoro è armonicamente controllato e lontano dagli eccessi. Eppure «Dances» fu un toccasana, una balsamo espettorante per il jazz italiano che, in quei giorni di riflusso, di yuppismo e di Milano da bere, appariva ripiegato sul manierismo calligrafo e sulla riproposizione sistematica di un post-bop scolastico appreso sui pattern e sui manualetti a presa rapida. Il calibrato ricorso all’elettronica, attraverso un harmonizer e un delay offrì al timbro degli strumenti (soprattutto ai fiati del band-leader) la possibilità di un’efficace moltiplicazione sonora ed un piacevole riverberato ambientale, tanto da aggiungere alle varie tracce una penetrante espressività ed un maggiore grado di penetrazione.
A Trovesi e compagni bastarono quaranta minuti per racchiudere in un piccolo scrigno, l’essenza di un jazz svincolato dalle convenzioni che miscelava e dosava con equilibrio passato, presente e futuro. In seguito, il polistrumentista tenterà delle vie di fuga più estreme, ma con risultati meno significativi. Se volessimo credere al fato, «Dances» fu un allineamento astrale perfetto. Uno di quei momenti in cui tra i musicisti si stabilisce una comunicazione impeccabile all’interno di uno stato di grazia, ambientale, spirituale e personale. Ciò è quanto accadde in quel gennaio del 1985 presso il Barigozzi Studio di Milano. L’album, prodotto da Sergio Veschi, fu pubblicato dalla Red Records, in quel periodo molto attiva a scovare gli artisti meno irregimentati che potessero esprimere qualcosa di innovativo pur non uscendo eccessivamente dal seminato, da quella sorta di mainstream a maglie larghe per anime elette e per palati fini.
Trovesi, pur avendo una formazione semi-colta, un carattere mite ed un discreto self-control, almeno all’apparenza, non lasciava presagire mai un’irruenza creativa incontrollabile. Essendo stato forgiato nella fucina del demiurgo Gaslini, punto di decollo fondamentale per la sua carriera, il multi-strumentista di Nembro aveva appreso l’arte della mescolanza dei suoni e l’idea di non considerare mai la musica in generale come un compartimento stagno ed impermeabile. «Dances» si sostanzia attraverso l’esposizione di sei tele sonore (tutta farina del sacco di Troversi) dai colori e dai tratti cangianti e mutevoli. Il cambio di mood e di passo è frequente anche all’interno dello stesso componimento.


L’opener è affidato a «Dance For A Small Bell» della durata di quasi nove minuti, introdotto da alcune note di basso e da un tintinnio di campanelli. Mentre il sax soprano annuncia il tema, l’atmosfera diventa quasi magica, come una voce narrante dalle capacità affabulatorie, trasformandosi progressivamente in una danza nel bosco incantato in onore del dio Fauno. L’arrivo delle percussione effettate e del clarinetto basso, sposta la narrazione in un contesto quasi noir e fitto di mistero, alimentato dalle subentranti note brunite e crepuscolari del violoncello. Le variazioni di umore sono frequenti, mentre una ridda di percussioni, che funge da spartiacque, conduce il tema alla melodia iniziale. «Dance For A Fat Arlecchino» è un breve componimento fatto di fraseggi ironici e carnevaleschi, tanto da pennellare i burleschi passi di danza di un Arlecchino dallo occhio furbo e dal riso beffardo, pronto a commettere la sua ennesima marachella. Trovesi, maestro indiscusso di questo strumento, usa il clarone come una macchina da film fatta di inquadrature e fotogrammi precisi e descrittivi.
«Dance From The East N1» e «Dance From The East N2», guardano ad Oriente, ad un mondo policromo e dalle sfumature molteplici, sono entrambi simili e rimandano ad alcuni componimenti tipici dell’epopea free-jazz. Ci sono elementi ornettiani o del terzomondismo tipico di Don Cherry, ma sono solo suggestioni. In realtà sono due saltelli ritmici ricchi di un tribalismo primitivo, in special modo, la prima danza guarda in direzione dei Balcani, mentre la seconda si flette e si riflette spesso e gira su sé stessa come un arabesco dissonante e ipermodale. I vari fiati adottati da Trovesi stabiliscono i passi e le movenze del ballo, mentre la retroguardia, non disattente gli assunti del capo, fornendo il giusto apporto ritmico con un Damiani in grande spolvero che passa dall’acustico all’elettrico con estrema disinvoltura, senza mai alterare la composizione chimica del composto sonoro. Nel complesso le due danze con la bussola puntata ad Est occupano quasi metà dello spazio totale del disco. «Sciamano’s Dance», dedicato a Vittorio Franchini, critico jazz e profondo conoscitore delle musiche del continente Africano, è un rito propiziatorio ancestrale declamato dal clarinetto basso, con una sorta di ironico e distaccato disincanto nei confronti di certe pratiche apotropaiche. «Sorry, I Can’t Dance» è un costrutto molto vicino al jazz a volo libero, fatto di veloci ed a volte «disordinati» ed imprevedibili cambi di passo, volutamente disarmonici e con una punta di ironia.
In fondo «Dances», nella sua totalità, è molto più vicino a un’opera umoristica di Heinrich Böll o ad una composizione teatrale di Kurt Weill che non a un disco di Ornette Coleman. Tutto ciò va considerato tutt’altro che una deminutio capitis. L’album all’epoca, almeno in Italia, passò inosservato, soprattutto perché Trovesi non aveva ancora ricevuto gli onori che meritava sia da parte del pubblico che della critica, la quale ne riconoscerà i talenti creativi, compositivi ed esecutivi solo qualche anno più tardi.
«Dances» di Gianluigi Troversi è disponibile nel catalogo della nuova Red Records di Marco Pennisi. Per informazioni: https://redrecords.it