«Possiamo dire che il jazz sia un virus, un virus di libertà, che si è diffuso sulla terra, infettando tutto ciò che ha trovato sulla sua strada: il cinema, la poesia, la pittura, la vita stessa». (Steve Lacy)
// di Bounty Miller //
Gil Evans & Steve Lacy - «Paris Blues», 1988
«Paris Blues» nasce dall’insolito incontro fra Gil Evans, pianoforte e piano elettrico e Steve Lacy sax soprano. Realizzato nella capitale francese, fu dato alle stampe da un’etichetta locale, la Owl, quindi ripubblicato negli Stati Uniti dalla Sunny Side Records nel 2003. Fu anche l’ultimo album in studio di Evans prima della sua morte avvenuta nel 1988. All’indomani dell’uscita, la rivista Downbeat, accolse il disco con entusiasmo, conferendo all’etichetta francese Owl un encomio solenne per l’iniziativa ed una recensione a cinque stelle.
Registrato il 30 novembre e il 1° dicembre 1987, presso il Family Sound Studio di Parigi, «Paris Blues» è un album alquanto sorprendente da svariati punti di vista, così come le riflessioni in merito potrebbero essere molteplici. Di certo l’atmosfera parigina, intima, languida e decadente, sarà stata propedeutica all’abbinamento fra questi due musicisti. L’accoppiamento risulta particolarmente appropriato, vuoi per l’apporto melodico melodico ad ogni singola traccia, vuoi per la forte liricità impressa in fase improvvisazione. Alcuni artisti raramente sbagliano un colpo, non importa se suonino da soli o con una big band. Steve Lacy, come Keith Jarrett, è stato uno di questi. Musicisti di tal fatta possono afferrare quasi fisicamente l’ascoltatore, come se questi avesse una maniglia impiantata tra la colonna vertebrale ed il cervello e trasportarlo in luoghi remoti o in altre dimensioni.
Anche in questo set, Steve Lacy sa essere protagonista attraverso il consueto modulo espressivo, assai duttile, che gli consente al suo soprano di allungarsi e muoversi in ogni direzione e di scavare all’uopo, davvero nelle profondità abissali della musica, caratterizzando la fase melodica con innesti poetici dalle rime moderne e con un tratto molto innovativo, soprattutto rievocando con sicurezza le atmosfere di alcuni dei suoi compositori preferiti, tra cui svettano «Goodbye Pork-Pie Hat» di Charles Mingus e «Paris Blues» di Duke Ellington, perfino la sua «Esteem» diventa un raccordo tra passato e futuro, evitando il citazionismo di routine. Gil Evans offre un eccellente accompagnamento, anche se la sua meritata reputazione di arrangiatore supera di gran lunga quella di improvvisatore; ciononostante non inciampa mai sui cambiamenti proposti da Lacy, mentre i suoi assoli, sia pur contenuti, risultano alquanto graziosi e rifiniti. Del resto Evans svolge, consapevolmente, il ruolo di accompagnatore, così quando il sassofono soprano di Steve Lacy entra in scena, il geniale Gil fa ricorso ad una semplice formula magica, la quale si esprime attraverso un suono pieno e calibrato che fuoriesce dai tasti del pianoforte o del piano elettrico, colmando pause e silenzi con piacevoli note accuratamente scelte.
Pur mantenendo una sonorità insolita a causa del minimalismo della strumentazione e dei rispettivi stili dei due musicisti, l’album contiene un’aura sonora fortemente magnetica, a tratti maliarda e seducente. Gli animi sensibili ed i palati raffinati saranno favoriti nella fruizione; essi pur non cercando il massimo in un album del genere, difficilmente troveranno un punto debole in termini di esecuzione, affiatamento ed equilibrio formale. Si potrebbe parlare di un’ambientazione diversa per ciascuno dei dei due esecutori, complementari e padroni dei propri strumenti, i quali spostano i loro talenti in direzioni alquanto inaspettate, per poi confluire in un unico punto di approdo. Un disco superbo, sottile, mercuriale e sorprendente, per veri cultori del jazz, i quali desiderano elevarsi sulla banalità dell’omologazione e sull’idea di prevedibile e massificato.

Stevie Lacy – «Anthem», 1990
La Rivoluzione Francese è un simbolo o, forse, una metafora della cultura occidentale, segna la fine e l’inizio di un’epoca. Ma in questo album di Stevie Lacy, più che un elemento rivoluzionario, cogliamo una sorta di illuminismo creativo, dove il sassofonista lega le proprie fortune al bicentenario della Rivoluzione Francese. L’atto rivoluzionario si sostanzia essenzialmente nell’aver celebrato questo momento storico con un miscela di soul-jazz a presa rapida, a cui fa da corollario l’inseparabile voce di Irène Abei.
«Anthem», ossia inno, è un lavoro commissionato dal Ministero della Cultura del governo francese in onore del 200° anniversario della Rivoluzione. Il forte elemento di modernità, almeno dal punto di vista estetico, consiste nel fatto che Lacy usa moduli espressivi provenienti dalla tradizione afro-americana per creare una sorta di inno nazionale francese vicino al soul e tutt’altro che contiguo alle fanfare d’Oltralpe, tanto che Irène Abei diventa la voce perfetta per quella che è più di una semplice narrazione cantata. Siamo in presenza di un tributo, una celebrazione a vantaggio di qualsiasi rivoluzione, che sconfina idealmente anche in quell’epocale sommovimento sociale e culturale che furono l’emancipazione dei neri d’America e l’abolizione della schiavitù, anche se con tono sfumato e moderatamente conflittuale. Del resto, i principi di fratellanza, libertà ed uguaglianza enunciati dalla Rivoluzione Francese, ben si adattano a qualunque altro tipo di sommovimento.
In «Anthem», Steve Lacy arricchisce il suo sestetto di base con l’aggiunta di un trombone, percussioni e voce, producendo una gamma più ampia di trame sonore rispetto ai dischi precedenti. Il fulcro dell’opera è proprio « Prelude And Anthem», un tema angolare che si sviluppa in modalità libera, con l’improvvisazione all’unisono degli strumenti fiato, mentre percussioni e pianoforte si sovrappongono continuamente, interagendo con un’eco vociferante. Gli elementi dissonanti sfatano l’aulicità della cerimonia ed evocano il caos arrembante della rivoluzione. Irene Aibei contribuisce con la sua voce profonda e sofferente, aggiungendo qualche stilla in malinconia in «The Mantle», ma soprattutto nell’enigmatica ballata ispirata a Mingus, «Prayer» e dedicata a Charlie Rouse. Il set si apre con un tono molto vivace e spigliato, «Number One» è un omaggio a James Brown, imbastito su un groove funk, trapuntato di blues stile New Orleans, con l’aggiunta di alcuni ritmi caraibici. Il percussionista Sam Kelly apporta accenti esotici, mentre il trombonista Glen Ferris evoca i musicisti dell’era di Duke Ellington.
L’album si chiude sulla falsa riga de tema iniziale con «The Rent», un mambo swingato caratterizzato da una forte complicità del gruppo che procede quasi all’unisono. Il basso di Jean Jacques Avenel, caratterizza un brano ispirato all’Africa occidentale, «J.J.’s Jam», magnificato dalla presenza del kora, strumento malinese a corde. Da segnalare anche il notevole contributo del contraltista Steve Potts e del pianista Bobby Few. «Anthem» è una forte pozione a base di soul-jazz, che incrocia il crepuscolo del vecchio secolo e l’alba del nuovo millennio, anche se siamo ancora nel 1990; molti sono i tratti salienti, sia a livello di composizione e di esecuzione, rispetto alla maggior parte degli album jazz di quel periodo. «Anthem» è un lavoro dalla forza epica che anticipa di circa trent’anni l’arrivo di epigoni come Kamasi Washngton, un disco essenziale per i sostenitori di Lacy, ma anche per tutti gli appassionati di jazz alla ricerca di perle rare.
EXTRA LARGE
Steve Lacy With Don Cherry – «Evidence», 1962
Steve Lacy e Don Cherry messi nello stesso alambicco sono come i due elementi di una reazione chimica di per sé ribollente ed instabile, a tratti esplodente. Così come un album, composto esclusivamente da brani di Monk e Ellington è già un gioco d’azzardo pieno di contrasti e regole infrante, oltre a garantire una partenza con un score piuttosto elevato.
Registrato il 1° novembre del 1961 al Van Gelder Studio,«Evidence» di Steve Lacy With Don Cherry seziona il catalogo del Monaco, eseguendo quattro punte di diamante monkiane con l’aggiunta di due standard del Duca Duke. Per questo set entrarono a far parte dell’organico di Lacy due membri del quartetto di Ornette Coleman, il batterista Billy Higgins e il trombettista Don Cherry, oltre al bassista Carl Brown. Ispirato al jazz futurista ed armolodico, nel disco non è presente un pianoforte o una chitarra, quindi nessun discernibile cambiamento di accordi, rendendo la relazione tra le melodie e le linee di basso più ambigue di quanto sarebbe accaduto normalmente con la presenza di uno strumento accordale. Nonostante il tentativo di fare un album trasversale, i brani di Monk mantengono tutti gli aspetti logici e formali e la componente melodica è assai fruibile come sempre, anche in questo contesto anti-armonia. Ad esempio, «Let’s Cool One» è semplice e lineare senza salti a intervalli o eccessi ritmici, forse un pianoforte avrebbe determinato un andamento differente.
L’inventiva di Don Cherry sposta i baricentro del costrutto sonoro con una serie di innesti obliqui e fantasiosi. Le altre tre composizioni a firma Monk sono tutte in classe A, anche se meno note. «Evidence» in particolare, gioca molto sull’attimo fuggente e sull’improvvisazione, come se le note da suonare venissero scelte al momento o suggerite dal sodale, soprattutto gli assoli di Don Cherry e Steve Lacy sembrerebbero sfuggire alla regolarità, quasi che l’uno volesse liberarsi dal controllo dell’altro. «Who Knows» è un tempesta perfetta con delle grandi linee di basso, mentre in «San Francisco Holiday» le fughe solitarie di Cherry e Lacy sono da libera università del pensiero. Ben riuscito il lavoro anche sulle composizioni di Ellington, «Something To Live For» rimane nella media dello standard, ma «The Mystery Song» si eleva una spanna al di sopra della media. Il sax soprano di Lacy e la tromba di Cherry sono in perfetta sintonia, mentre Higgins lavora sul ritmo come uno stregone. Nell’album si respira un’atmosfera vagamente dark, che apporta un fattore di diversità a prescindere, nonostante l’effetto diatonico sia alquanto contenuto. Non facile al primo impatto, ma dopo ripetuti ascolti, «Evidence» di Steve Lacy With Don Cherry appartiene a quella categoria di dischi che inducono alla dipendenza.


Scive Guido Michelone: «Di lontane origini russe, Steve Lacy, all’anagrafe, Steven Norman Lackritz, nato a New York il 23 luglio 1934 e morto a Boston il 4 giugno 2004, resta un protagonista assoluto, sia pur in un modo appartato, gentile, discreto, della musica dagli anni ’60 al Duemila, nel frangente della storia jazzistica sia americana sia europea (grazie ai lunghi soggiorni in Francia e in Italia), allargando la propria influenza artistica già dalla fine degli anni ’50 e per tutto il secondo Novecento sino agli inizi del XXI secolo. Suonando esclusivamente il sax soprano, riesce per primo a svincolare questo strumento dalle pastoie del dixieland (che pure egli suona in gioventù) tanto da farne uno strumento modernissimo, persino adatto alle incursioni free di cui lui rimane un indiscusso maestro. L’approccio di Steve Lacy alla libertà improvvisativa non è però mai rabbiosa o oltranzista, nemmeno durante i turbolenti Seventies: c’è in lui un senso della melodia, del lirismo, persino del silenzio che si esterna alla perfezione nei frequenti duetti con il pianista Mal Waldron oppure in completa solitudine come nel bellissimo Concert Solo (1972), il quindicesimo LP ufficiale di una carriera discograficamente iniziata un quindicennio prima e proseguita con decine di titoli sempre tutti all’altezza della situazione»,