// di Francesco Cataldo Verrina //
Il sodalizio discografico fra due sassofonisti tenori di rango non è certo una rarità nell’ambito del jazz mainstream. La tradizione del doppio tenore, nel corso degli anni, ha dato vita a straordinarie unioni musicali come quella fra Wardell Gray e Dexter Gordon, Arnett Cobb e Eddie «Lockjaw» Davis, Gene Ammons e Sonny Stitt e Al Cohn e Zoot Sims. Lo stesso Paul Quinichette, aveva condiviso un’interessante esperienza con John Coltrane. La fusione a caldo tra Charlie Rouse e Paul Quinichette portò alla realizzazione di un album di notevole spessore, basato su due manierismi nettamente diversi nel modo di concepire il jazz; due metodologie impiego, che finiscono per esaltarsi nell’arte della compensazione, come due opposti che si attraggono.
Alcune tracce, A1, A3, A4, B2, B4, furono registrate a New York City il 29 agosto 1957, mentre le altre, A2, B1, l’8 settembre 1957. Parteciparono ai due set, oltre a Charlie Rouse e Paul Quinichette al sax tenore, Wendell Marshall al basso, Ed Thigpen alla batteria, Freddie Green alla chitarra (brani: A2, B1), al pianoforte Hank Jones (brani: A2, B1) e Wynton Kelly (brani: A1, A3, A4, B2 a B4). Per i due titolari dell’impresa fu usata una tecnica largamente diffusa in quel tempo, ossia la divisione stereo dei sassofoni in canali opposti, tecnica rudimentale , ma estremamente funzionale, soprattutto quando i due tenori eseguono le linee melodiche; ciò consente di sentire veramente quanto siano diversi. Lavorando con degli standard, lo schema è assai semplice: entrambi iniziano a suonare gli accordi di testa all’unisono, quindi ognuno dei due suona alternativamente una breve frase musicale che sfugge al percorso melodico stabilito.
Charlie Rouse, che avrebbe continuato a lavorare con Thelonious Monk sviluppando un suono fluido e pacato rispetto al tono più loquace e zampillante espresso in questo album, sembra in uno stato di grazia. A quell’epoca stretto collaboratore di Count Basie, siamo nel 1957, Quinichette, era soprannominato il «Vice Prez» per il suo approccio non dissimile a quello di Lester Young, Il suo tono levigato e morbido, ma corposo al contempo, era una forza innegabile nell’ambito del jazz di quegli anni, ma lo fu solo per breve tempo, prima che egli decidesse di abbandonare la scena, non molto tempo dopo questa session, per intraprendere la carriera di ingegnere elettronico. «The Chase Is On» è un ottima pietanza musicale in agro-dolce con i tipici ingredienti del periodo, i due comprimari si dimenano fra tirati hard-bop, avvolgenti ballate ed oscillanti mid-range, a partire dalla title-track che si sostanzia come un sfida a colpi di note fra due perfetti duellanti, con lo spirito competitivo, ma rispettoso, tipico dei jazzisti dell’epoca.
Alcuni inserti armonici innestati in «This Can not Be Love» e in «The Things I Love» mostrano i due tenori nel momento migliore della loro conversazione; «Knittin», è un comunissimo swing, regolare e semplice ma con alcune sottili sfumature armoniche. La sezione ritmica con il pianista Wynton Kelly, il bassista Wendell Marshall e il batterista Ed Thigpen forniscono costantemente un ottimo supporto dalle retrovie. In particolare su due tracce, l’ambientazione sonora sembra mutare, quando il pianista Hank Jones e il chitarrista Freddie Green subentrano in prima linea, rimodellando il suono della band con sfumature morbide e romantiche, ricamando una versione low-down di «When the Blues Come On» e ridando nuova verve ad un classico come «You’re Cheating Yourself». Nel complesso, la combinazione fra Charlie Rouse e Paul Quinichette risulta ben riuscita, acquietando in parte il loro individualismo, entrambi giocano a tutto campo esaltando i singoli punti di forza, marcando le differenze, ma con una comune finalità. Un album che non dovrebbe mancare nella vostra già fornita discoteca jazz, ideale soprattutto per i neofiti.
EXTRA LARGE
«Pumpkin’s Delight» ,«Sphere Live At Umbria Jazz», 1993
Parto con una considerazione personale: ascoltare un disco del genere, per me, è una duplice emozione, perché io quel giorno c’ero, seduto in un angolo del Teatro Morlacchi di Perugia. Era il 14 luglio del 1986, quando il concerto «Sphere Live At Umbria Jazz» venne fissato su nastro. Da giovane cultore dei sassofonisti jazz, ero corso ad ascoltare soprattutto il mitico Charlie Rouse, ma tutto l’insieme fu per me una rivelazione. Per questa e altre considerazioni, sono ancora qui, dopo più di trentasei anni, a scervellarmi per cercare di capire e spiegare al mondo la forza evocativa di una tipologia jazz che oltrepassa le barriere dello spazio e del tempo, che ha attraversato mode e tendenze, uscendo indenne e più vivo che mai. «Pumpkins Delight» fu delle più seducenti registrazioni di jazz live di jazz degli anni Ottanta.
Gli Sphere sono stati un eccellente quartetto sax-led capace di spaziare tra bop classico, hard-bop e post-bop, quattro superbi musicisti in perfetta armonia, abili nel fare oscillare l’anima, il corpo e la mente. «Pumpkin’s Delight» ,«Sphere Live At Umbria Jazz» si sostanzia come uno dei momenti salienti della breve vita artistica di questo gruppo, pubblicato, anche su CD, molti anni dopo, il loro scioglimento, avvenuto nel 1988, dalla Red Records, quale omaggio alla memoria di Charlie Rouse, come recita chiaramente l’epigrafe riportata sulla copertina del disco: «Dedicated to Charlie Rouse, a man of great feelings, umanity and a great tenor saxphone player». La title-track «Pumpkin’s Delight», un concentrato di blues turbolento composto da Rouse, utilizzato come opener del concerto, diventa il vero fiore all’occhiello dell’album. «Saud’s Song», caratterizzato da un potente assolo di Rouse in apertura, ma firmato Kenny Barron, è un compatto up-tempo, un veicolo ricco d’inventiva che trasporta la band verso il post-bop, dimostrando tutta l’abilità strumentale e compositiva di quello che sarebbe diventato uno dei pianisti più richiesti in svariate sessioni di registrazione durante il decennio successivo. Al bassista Buster Williams si deve la composizione delle restanti tre tracce: «Christina» è una fascinosa ballata, mentre «Tokudo» è un hard-bop, snocciolato in scioltezza e con maestria; il conclusivo «Decaptkon» rappresenta uno dei momenti più insoliti ed impegnativi del repertorio del quartetto, segnato dalla pennellata estrosa e brillante di Ben Riley e da un memorabile assolo del contrabbassista-autore. «Pumpkin’s Delight», «Sphere Live At Umbria Jazz» è un altro disco che non dovrebbe mancare nella vostra collezione jazz.
