Stan Getz – “Stan Getz With Guest Artist Laurindo Almeida”, 1963
// di Irma Sanders //
Meno conosciuta di altre sessioni di quel filone-jazz-samba, a mio avviso, questa è una delle più riuscite. Appena Stan Getz e Laurindo Almeida partono con “Minina Moca”, l’ascoltatore è subito avviluppato in vortice di suoni ammalianti. Sebbene ci sarebbe davvero l’imbarazzo della scelta nel decretare quale sia la traccia migliore dell’album, per cui il viaggio ideale tra Brasile e Usa procede su una rotta piacevole in un ambiente totalmente rilassato, accompagnati da una musica di eccelsa bellezza.
Negli anni ’60, Laurndo Almeida era già un veterano delle session negli studi dell’area jazz della West Coast e da tempo collaborava con la big band di Stan Kenton, il quale dopo averlo ascoltato in Brasile, lo persuase a trasferirsi negli Stati Uniti. Fu Almeida ad introdurre il suono brasiliano nel contesto jazz nordamericano. Tre settimane dopo aver completato l’incontro con Luiz Bonfá e solo due giorni dopo le epiche sessioni di Getz / Gilberto, Stan Getz tornò in studio continuando a registrare seguendo la strada maestra della bossa nova. Il produttore Creed Taylor stava battendo il ferro ancora caldo, infilandosi in tutte le sessioni brasiliane che poteva, eppure la qualità della produzione musicale rimaneva costantemente di elevato livello.
“Stan Getz With Guest Artist Laurindo Almeida” è un set legato al fenomeno internazionale della bossa nova, l’onda (anomala rispetto al jazz) che Getz stava guidando e cavalcando con enorme successo, soprattutto continuando la sua fortunata regola d’ingaggio, ossia scegliere a turno un alleato brasiliano di sostanza. Questa volta Getz si affidò a Laurindo Almeida, cesellatore di ritmi esotici, brillante compositore e chitarrista d’eccezione. La sezione ritmica fu l’espressione di una miscela autenticamente swing formata da sidemen americani (tra cui Steve Kuhn al piano e George Duvivier al basso) e percussionisti brasiliani.
Almeida non amava improvvisare, quindi i suoi assoli non si discostano molto dalle melodie di base, emanando un feeling perfettamente abbinato al groove. “Outra Vez” di Jobim è un esempio particolarmente esemplificativo della libertà espressiva di Getz e del suo lirismo disinvolto in contrasto con il ricamo ancorato alla melodia di Almeida. Nel contesto di quel fiorire di alleanze Nord-Sudamericane, all’epoca, set di questo tipo potrebbero essere stati considerati come di routine, eppure ancora oggi questa riuscita alchimia sonora risulta estremamente attuale e soddisfacente.
LINE-UP:
Stan Getz: sax tenore; Laurindo Almeida: chitarra; George Duvivier: basso; Edison Machado: batteria; Jose Soorez: batteria; Dave Bailey: batteria; Luiz Parga e Jose Paulo: percussioni latine.

EXTRA LARGE
Stan Getz and J.J. Johnson – “At the Opera House” , 1957
Storicamente vanno riconosciuti a Norman Granz molti meriti e parecchie intuizioni, fra queste annoveriamo l’unione fra Stan Getz e J.J. Johnson, con il supporto del trio del pianista Oscar Peterson, tra cui il bassista Ray Brown e il chitarrista Herb Ellise, con l’aggiunta del batterista Connie Kay. Al sestetto vennero affidati due concerti ripresi a Chicago in stereo e Los Angeles in mono ed inclusi nell’edizione estesa del CD, con alcune jam allungate e materiale extra, mentre nel vecchio vinile sono contenute solo 5 tracce nell’edizione stereo e sei nell’edizione mono.
Sax tenore e trombone si adattano molto bene al contesto, mentre i due protagonisti risultano perfettamente compatibili nei loro livelli sonori, espressivi e dinamici, nonché particolarmente sincroni e congrui quando suonano insieme; al contrario Peterson rimane sullo sfondo, fungendo assolutamente da supporto e da collante, tanto da lasciare a Getz e Johnson una sconfinata prateria su cui liberarsi creativamente. La band parte subito in picchiata, seminando fuoco e fiamme e bruciando una delle bandiera del bop, “Billie’s Bounce”, attraverso una perfetta scorribanda di quasi dieci minuti. Né Getz né Johnson avevano mai cavalcato prima questo irrequieto cavallo di battaglia Charlie Parker, così come nessuno dei due si era mai misurato con “My Funny Valentine”, restituito al mondo degli uomini attraverso la linea guida di Getz, mentre il trombonista lo asseconda con garbo, sviluppando un delicato accompagnamento ritmo-armonico.
Peterson da la carica a “Crazy Rhythm”, classico dell’era swing, mentre il sax e trombone suonano quasi sincroni. In “Blues in the Closet”, della durata di oltre nove minuti, tutta la band si scioglie in un andirivieni quasi divertito. Ottimo il nuovo rendering che Johnson fa su due classiche ballate: “Yesterdays” e “It Never Entered My Mind”, con Getz che aggiunge dei contrafforti molto soul. Registrato il 29 settembre ed il 7 ottobre del 1957, “Stan Getz and J. J. Johnson At the Opera House” nasce dalla straordinaria abilità di jazzisti di alto rango, che elevano questo album a uno status quasi leggendario. Perfetta la qualità sonora, in quell’anno le tecniche di registrazione fecero molti passi in avanti.
PICCOLE DIVAGAZIONI SUL TEMA
Non tutti lo sanno, ma il formato trio nel jazz è una delle acquisizioni più recenti. Il bebop aveva ridotto l’orchestrazione a pochi elementi, 4 o 5 nella media, con le cosiddette combo, dove il dominio della prima linea era affidato essenzialmente ad uno strumento a fiato, sassofono o tromba. I primi esperimenti di trio furono fatti da Art Tatum e Lennie Tristano, ma con una formula anomala: pianoforte, chitarra e contrabbasso. Le etichette discografiche non credevano nell’essenzialità del piano trio, che appariva come una semplice enucleazione della sezione ritmica della tradizionale big band.
Alla fine degli anni ’40 cominciarono ad evidenziarsi alcuni fenomeni legati al piano trio, dove il pianista mostrava la capacità di sdoppiarsi, usando le due mani in maniera complementare, come se suonasse due strumenti differenti. La mano sinistra che svolgeva essenzialmente una funzione ritmico-armonica di accompagnamento e la mano destra che sviluppava la melodia attraverso note singole, come uno strumento a fiato; tale tecnica è detta, per l’appunto, “horn”; modulo espositivo adottato e molto affinato da Bud Powell. Il disco in questione usa la formula del primitivo jazz trio, ossia chitarra, pianoforte e basso, senza la batteria. Il valore aggiunto diventa il sax tenore di Stan Getz, che però assume una forma di controvalore rispetto al pianoforte con cui condivide la prima linea e dove a tratti fornisce anche dei contrafforti ritmici quasi di accompagnamento.
La bravura di Oscar Peterson e Stan Getz è tale e tanta che nessuno si accorge della mancanza di una batteria. Ovviamente tale mancanza non colloca un album del genere in un contesto bebop. Pur essendo stato registrato nel 1957, il risultato è quello di un piacevolissimo sound dal sapore retrò che rimanda molto all’epoca aurea delle grandi orchestre, il concept e le metriche usate sono molto deja-vu. Anche quando Stan Getz, tenta di andare in overclocking, rispolverando la sua indole di nero-bianco, rimane come sospeso nel vuoto, questo aggiunge ancora più fascino alla sua ventilata ed ariosa progressione, non vincolata dal battito metronomico e perimetrale di una batteria che ne avrebbe condizionato, limitato e recintato il passo all’interno di una preciso movimento. Con Getz e Peterson, ci sono Herb Ellis alla chitarra e Ray Brown al basso, i quali alimentano il fuoco con un eccellente walking, ma non riescono a lanciare il cuore del sax oltre l’ostacolo. “Stan Getz & The Oscar Peterson Trio” fu un’altra delle iniziative di Norman Granz per dare visibilità agli artisti del suo roster. Un album molto piacevole, sospeso tra passato recente, remoto e citazioni di maniera, che non aggiunge e non toglie nulla alla storia del jazz moderno.
