Woody Shaw – «Cassandranite», 1965
// di Francesco Cataldo Verrina //
Quando nel 1963 Woody Shaw fece la sua prima registrazione, come sconosciuto diciottenne in veste di sideman nella band di Eric Dolphy, alcuni ipotizzarono che quel nome fosse uno pseudonimo usato da Freddie Hubbard (e forse uno stratagemma per poter suonare dovunque senza obblighi contrattuali). Presto gli ascoltatori più attenti notarono come il tono di Shaw fosse più ampio e ricco di sfumature, mentre le sue scelte armoniche risultavano più contorte e trasversali. Shaw lavorò come gregario per molti affermati musicisti dell’epoca, quali Larry Young, Art Blakey e Dexter Gordon; soprattutto ospitò nelle sue band giovani e rivoluzionari avanguardisti, tra cui Anthony Braxton, Billy Harper, Geri Allen e Arthur Blythe. Nonostante non abbia mai avuto un riconoscimento ufficiale, se non post-mortem, Woody Shaw fu una personalità musicale dominante e le sue improvvisazioni avevano la forza di spostare l’asse della musica dal piacevole al sublime, attraverso raffiche di note pungenti e perfettamente piazzate che balzavano fuori da direzioni inaspettate.
Un’esistenza drammatica, a limite della tragedia: ipovedente e «legalmente» cieco, nonché afflitto da problemi emotivi, Woody Shaw morì in un incidente della metropolitana nel 1989 senza mai raggiungere quel riconoscimento e quella notorietà che avrebbe meritato; eppure fu un vero innovatore del linguaggio strumentale, destrutturando e ristrutturando la concezione della sintassi armonica del proprio strumento. Shaw introdusse degli andamenti melodici solitamente impiegati con il sassofono, ossia l’utilizzo frequente di intervalli di quarta e di quinta durante la fase improvvisativa. Questi elementi di assoluto modernismo ne fanno uno dei maggiori geni della musica afro-americana. Purtroppo incompreso per lungo tempo o banalmente liquidato da molti, all’interno di uno sviluppo lineare del jazz, come l’anello di congiunzione fra Hubbard e Marsalis.
Woody Shaw ha avuto anche una vita artistica per niente facile, nonostante il suo genio, per alcuni incompiuto, per altri incompreso, soprattutto il trombettista non ha mai ricevuto nei momenti necessari la vicinanza di una certa critica, accovacciata su posizioni di rendita comode e poco rischiose e di un’industria musicale, a tratti ottusa ed in grado di vedere oltre il proprio naso; per contro, ha sempre ottenuto il sostegno di molti colleghi e di un pubblico di sostenitori esperti e competenti, ma forse non è bastato. Oggi, con il senno di poi, il trombettista viene celebrato a vari livelli: forse non è mai troppo tardi.
La genesi di «Cassandranite» è la dimostrazione lampante di quanto impervia ed accidentata sia stata la carriera di Woody Shaw, il quale nel 1965 decise di produrre un album da solo: la finalità era quella di attirare l’attenzione di qualche etichetta e strappare un contratto; questo, però, non avvenne. L’industria del disco rimase insensibile al suo grido disperato. L’album, registrato nel 1965, con una traccia aggiunta nel 1971, venne pubblicato con questo titolo solo nel 1983. «Cassandranite» possiede tutte le caratteristiche tecniche ed artistiche, tanto da non sfigurare vicino a qualsiasi classico della Blue Note della metà degli anni Sessanta, anche se ad Alfred Lion e socio non balenò mai nella testa l’idea di fargli firmare un contratto.
La session era, originariamente, intitolata «In The Beginning», ma il materiale impresso su nastro venne dato alle stampe circa 18 anni dopo come «Cassandranite» e va considerato ufficialmente come il debutto di Woody Shaw, ben cinque anni prima della sua seconda sessione come band-leader. Shaw non esprime totalmente un suono così distinto e caratterizzato, così come sarebbe diventato nel breve volgere di qualche stagione, ma ci sono già tutti gli elementi necessari e propedeutici per inquadrare le tante genialità di un musicista unico. Parteciparono alla seduta, per dargli man forte, anche Joe Henderson al sax tenore ed un insolito Larry Young al pianoforte (non all’organo come per sua inclinazione, fama e vocazione), proprio nella title-track «Cassandranite» ed in «Obsequious», per poi cedere il posto ad un pulsante ed ispirato Herbie Hancock in «Baloo Baloo», «Three Muses» e «Tetragon»; Ron Carter suona il basso in appoggio a Larry Young, mentre Paul Chambers accompagna Hancock. Joe Chambers è il deus ex-machina della batteria in tutto l’album, compresa la traccia aggiunta nel 1971, «Medina», nata da una sua performance con Garnett Brown trombone, Harold Vick al flauto e sax tenore, George Cables al pianoforte elettrico e Cecil McBee al basso.
La band distilla, in tutte le varie combinazioni di line-up, un coriaceo hard bop molto avant-garde, attraverso un suono denso e corposo, particolarmente interessante dal punto di vista storico per l’evoluzione del jazz moderno. Shaw e Henderson si esaltano nelle loro avanzate, disegnando figure armoniche inaspettate, segnate da piacevoli ed accattivanti colpi di scena melodici. L’intesa fra i due è perfetta; la loro esecuzione di «Baloo Baloo» regge il confronto conJackie McLean e Lee Morgan. In «Three Muses» Hancock suona con estrema scioltezza e libertà, cosa che non gli era consentita, nello stesso periodo, con Miles Davis. Il tratteggio sonoro di «Cassandranite» è lontano anni luce dalle atmosfere davisiane, ma molto più prossimo al Coltrane di mezzo ed al primo McCoy Tyner. Tutti i sodali suonano con forte coinvolgimento facendo emergere le infuocate ed abbaglianti progressioni di Woody Shaw, per nulla ordinario e prevedibile.
