Curtis Fuller – «The Opener», 1957
Nell’era Bop il trombone sarebbe rimasto uno strumento di secondo piano se Curtis Fuller non fosse riuscito a combinare una tecnica fluente modellata sugli assunti basilari di J.J.Johnson e Kai Winding, aggiungendo un profondo melodismo ed una spiccata attitudine compositiva, nonché la conoscenza di tutti gli stili applicati sul trombone risalenti a Tommy Dorsey; non ultimo un interesse marcato per quelle che erano allora le più recenti innovazioni armoniche apportate da Coltrane.
Nell’aprile del 1957 Fuller, scomparso nel maggio del 2021, era arrivato a New York come membro del quintetto di Yusef Lateef. Quando Lateef e la sua band tornarono a Detroit, il trombonista rimase nella Grande Mela e, nel giro di un mese, prese parte a quattro album per la Prestige in qualità di sideman con Paul Quinichette e come co-leader con Red Garland. Qualche settimana più tardi, registrò due album per la Blue Note in veste di gregario con Clifford Jordan e «The Opener» come band-leader. Le sue credenziali con l’etichetta includevano perfino alcuni set con Sonny Clark e Bud Powell. Un mese dopo, Fuller appose il suo sigillo anche su «Blue Train» di John Coltrane, uno dei dischi più venduti nella storia dell’etichetta di Lion.
«The Opener», pubblicato dalla Blue Note Records nell’ottobre del 1957 e registrato il 16 giugno dello stesso anno al Van Gelder Studio, come altri lavori del trombonista di Detroit, è un disco scorrevole, vivace e ricco di spunti innovativi, ma per lungo tempo fu sottovalutato e dimenticato, quindi rilanciato come parte della serie «Rudy Van Gelder Remaster» della Blue Note. Oggi, con il senno di poi e senza tema di smentita, possiamo sostenere che Fuller sia riuscito a plasmare un piccolo gioiello ad imperitura memoria; uno di quei dischi che non risentono dell’usura del tempo, ma che mantengono sempre viva la freschezza, l’originalità e la tensione emotiva.
Una parte del merito va attribuita anche ai sodali: Hank Mobley al sassofono, Bobby Timmons al piano, Paul Chambers al basso ed Art Taylor alla batteria. I musicisti sono tutti a loro agio ed esprimono un forte senso di collegialità; si ha come la sensazione che si contagino a vicenda; soprattutto gli eccessi coriacei e martellanti tipici dell’hard bop sono smussati e contenuti; mentre l’elemento melodico è sempre in primo piano, mostrando una solarità ed una chiarezza espressiva non comune, in un momento in cui si privilegiavano le progressioni virtuosistiche in velocità; a tratti Fuller espone un tono fiabesco muovendosi in una foresta incantata come il dio Fauno.
I belluini propositi, tipici dei boppers e gli umori più rabbiosi sono tenuti alla larga. Perfino l’idea di Alfred Lion di far iniziare entrambe le facciate dell’album con una ballata, «A Lovely Way To Spend An Evening» di McHugh e Adamson e «Here’s To My Lady» di Bloom e Mercer, pagò molto in termini di scorrevolezza e fruibilità. Il calore e il lirismo di Fuller, assecondato dagli assoli di Timmons, mantengono un tono regolare anche negli altri quattro brani, che risultano essere gradevoli, veloci, dinamici e spensierati, soprattutto diluiti da un’abbondante dose di melodia. Le ballate introduttive sono seguite a ruota, una per facciata, da due originali composizioni dal sangue blues di Fuller, «Hugore» e «Lizzy’s Bounce», quindi in sequenza su ciascuna facciata del disco, da una parte un up-tempo di Oscar Pettiford, «Oscalypso» e dall’altra «Soon», un classico di George Gershwin.
