Jan Garbarek, Anouar Brahem, Ustad Shaukat Hussain – “Madar” (ECM 1994)

// di Marcello Marinelli //

Pomeriggio tardo autunnale di fine 2010, all’insegna dell’instabilità. Solo la musica promiscua di un trio anomalo rende omogenea l’atmosfera “anomala” come l’onda che tutto inonda e sommerge. La musica del trio norvegese- pakistano-tunisino crea quel tappeto sonoro che rende uniforme il pensiero in perenne divenire che non si posa su certezze consolidate. Il sax tenore di Jan, l’oud di Anouar e le tabla di Ustad cercano di rasserenare fughe improvvise in avanti della mente alla ricerca di un equilibrio che sembra perduto, o più semplicemente alla ricerca di nuovi equilibri.

I vocalizzi di Ustad insieme alle percussioni e al sottofondo indistinto di una nota tenuta all’infinito, rimandano all’origine del mondo o a un mondo futuribile dove quello che conta non è conflitto ma stasi, dove ciò che importa è ciò che è, ne ciò che è stato, ne ciò che dovrebbe essere. In questo preciso momento ho la percezione di “ciò che è”, anche nelle sue varianti negative, perché il “ciò che è” non ha sostantivi, anzi li ha e in certi casi il “ciò che è” è negativo, ma rimane sempre “ciò che è”. Si parte all’esplorazione del preciso momento in cui si è per arrivare in nessun punto preciso. Nessun punto preciso d’arrivo all’orizzonte, ma solo viaggio senza meta, peregrinando per il mondo, improvvisando con la vita come Jan improvvisa mentre soffia sul suo tubo d’ottone in compagnia dei suoi compagni d’avventura. Pause lunghe senza bisogno di riempire nevroticamente lo spazio e il tempo. Contemplare il mondo dall’alto, avendo punti di riferimento fissi ma mutevoli, chiaro il percorso senza conoscere perfettamente il sentiero. Lentamente, esageratamente lento, mi muovo fra le pieghe del mio pensiero.

Sfrutto ogni angolo riposto e ogni venatura del mio “pensare”. Solitario, in raccoglimento cerco di riappacificarmi con l’universo con cui entro in conflitto. Cerco di domare l’universo. Rifletto sulla mia condizione senza fuggire da me stesso. Mi immergo completamente in quest’oasi di insicurezza fluttuando in oceani sconfinati poco rassicuranti. La destrezza nel navigare è doverosa per non affogare o per non deragliare dalla retta via. Posso anche naufragare ma con dolcezza. Posso anche naufragare, ma con consapevolezza. L’orizzonte non è un altro naufragio, ma una bella isola deserta su cui potermi riposare dalle stanchezze della tempesta. Stremato mi adagio sulla battigia. Mi corico spossato, lasciandomi andare al flusso della marea che risucchia e respinge. Mi lascio andare a un sonno prolungato popolato da esseri benevoli che mi accompagnano.

Al mio risveglio sono circondato da territori lussureggianti. Gli gnomi della foresta marina illuminano il percorso con raggi di luce fluorescente. Il groviglio di luci colorate mi stordisce e mi accompagna nell’inesplorato. I suoni dei miei amici musicisti del trio internazionale che uniscono mondi lontani, e solo la musica è capace di queste alchimie, mi seguono come se fossero pifferai magici. I giochi di luce e i suoni che si disperdono nell’aria creano un vortice positivo e mi fanno vedere in lontananza un punto indefinito. Non riesco a focalizzare questo punto indefinito in lontananza, ma la compagnia è piacevole e no ho motivo di dubitare di questo punto in lontananza. Non mi crea tensione avvicinarmi a questo punto. Danzando sotto la pioggia che scende copiosamente in questo lungo pomeriggio di fine 2010, con corde che vibrano, voci che si odono, suoni che rimbalzano e luci che s’irradiano mi immergo piacevolmente in questa linea di confine immaginaria che è la vita nel suo ondivago manifestarsi. (Ispirato dal CD “Madar” 1994 (ECM). Jan Garbarek sax tenore e soprano, Anouar Brahem oud, Ustad Shaukat Hussain tabla e voce).