// di Francesco Cataldo Verrina //
Maurizio Giammarco è certamente uno dei migliori sassofonisti italiani, con una lunga carriera dietro le spalle, in parte già archiviata negli storici annali del jazz che conta ed un futuro ancora tutto da esplorare. Nonostante i suoi settant’anni, Giammarco è attivissimo sulla scena con decine di collaborazioni in qualità di sideman, quasi un centinaio nell’arco di una cinquantennale attività; senza mai lasciare indietro gli “affari di famiglia” o la sua ditta individuale. L’ultimo album come band-leader, “For A Brief Moment”, risale al 2020. Dopo aver iniziato a studiare il sassofono appena tredicenne, negli anni Settanta si perfeziona con Gino Marinuzzi, ma il suo ingresso nella fucina del demiurgo Gaslini sarà determinante per i successivi passaggi che lo vedranno protagonista in America al Creative Music Studio di Karl Berger. Il progetto Lingomania, sul calare degli anni Ottanta, lo consacrerà come uno dei musicisti più importanti della scena fusion italiana ed europea. Tre album che lo consegneranno alla storia: “Riverberi” del 1986, “Grr…expanders”, del 1987 e “Camminando” del 1989. Senza dimenticare il ritorno di fiamma del 2017 con “Lingosphere”, che rappresenta più di un’appendice nostalgica.
Mentre il progetto Lingomania era in fase di esaurimento, il musicista padovano diede vita a quello che sicuramente rimane una delle punte di diamante della sua discografia, “Hornithology”, un titolo che nasce parafrasando il celeberrimo “Ornithology”, ma evidenziando il “corno (horn)”, ossia lo strumento a fiato: Giammarco era considerato un vero specialista sia sul sax tenore che sul soprano. Nasceva così il Maurizio Giammarco Quartet con un giovane Danilo Rea piano e tastiere, ma già in grado di disegnare scenari armonici non convenzionali e con due calibri pesanti del jazz americano, Peter Erskine alla batteria, personaggio multitasking ed eclettico, capace di accarezzare i piatti con mano di velluto o di scatenare un putiferio attraverso una ridda di tamburi, e Marc Johnson al basso, ultimo accompagnatore prediletto da Bill Evans. Nelle liner notes interne dell’album, il sassofonista si diceva entusiasta di questa nuova avventura: “È stato un autentico piacere suonare con tre maestri, e suonare con loro le mie composizioni. Alcune di queste, da me particolarmente amate, aspettavano in un cassetto un’occasione come questa. Sono tutti temi ispirati ad autentiche impressioni e situazioni della vita reale. Il genere di storie che racconti a un barman, a notte fonda, quando sei su di giri”. In effetti l’album mette in risalto oltre ad un’innegabile tecnica espositiva di livello internazionale, anche una fertile vena compositiva e duna scelta di brani che s’incastrano alla perfezione, tanto da suggerire l’idea di un album concept.
I quattro sodali, animati da un ottimo sincronismo, non si perdono molto in preamboli, dando subito fuoco alle polvere. L’opener, “Old Home”, è una dichiarazione d’intenti e dice chiaramente quale sarà il tragitto che il fruitore dovrà compiere per entrare nel mood del costrutto sonoro: un coriaceo bop, dai contrafforti funkified, attualizzato e trascinato in un modulo abitativo più contemporaneo, dove Giammarco, nei movimenti più obliqui sembra risvegliare a tratti il fantasma di Coltrane, altre la quadratura tematica di Rollins. I cambi di passo sono molteplici, Rea costruisce un un perimetro armonico contenitivo e rassicurante, mentre la retroguardia ritmica non concede dilazioni o tregue. All’interno del componimento c’è quai uno spartiacque, con una seconda parte riservata agli assoli dei compagni di viaggio, mentre il sassofonista-leader si riappropria della scena solo sul finale. A seguire “Sky Walker, una vera Odissea interstellare dove ogni star presente nel set riesce a brillare di luce propria. La struttura narrativa del brano è alquanto mutevole nel ritmo e nell’umore: c’è qualcosa di arcano che ricorda vagamente il misticismo sospeso e l’inquietudine compositiva di Wayne Shorter, specie quando Giammarco inforca il soprano. La prima facciata si conclude con “End Of A Bop Affair. I latini avrebbero detto: nomen omen. Il bop con il suo velocismo consente al sassofonista di liberarsi in una dimensione quasi primitiva fatta di istinto e passione, mentre il pianoforte di Danilo Rea zampilla come una fresca sorgente di idee; dal canto loro Marc Johnson e Peter Erskine non lasciano aria ferma o avanzi per una successiva cena riscaldata.
L’altra faccia del disco, mostra subito un ghigno vagamente sardonico, aprendosi con “No Spanish Night”, che picchetta immediatamente i confini di un blues tagliente e limaccioso, su cui il sax di Giammarco disegna uno scenario drammatico, fatto di chiaro scuri, ombre e luci improvvise, ambientazioni brunite e crepuscolari, ma con un impianto melodico che si conficca nelle meningi del fruitore per non andare più via. Siamo alle prese con una ballata a tempo variabile, dove il sassofonista dimostra la sua vera tempra e la capacita di secernere pathos e lirismo, mentre Rea e i due americani ne assecondano voleri e capricci. “Arboreal Code” si muove tra innumerevoli suggestioni ed una capacità narrativa, quasi filmica, fatti di colpi di scena ed improvvise fughe improvvisative. Siamo di fronte ad un componimento post-moderno, dove il soprano di Giammarco si muove flettendosi su se stesso e ripiegando per insoliti tratturi sonori. Nulla è prevedibile, ma niente sfugge al controllo del sinergico line-up che agisce come guidato da un magnetismo telepatico. Il finale, “Unexpected Flight” e un lavacro rigenerante, quai catartico, almeno per il fruitore. Se dovessimo dare retta al titolo, “l’inaspettato volo” avviene tra un cumulo di pensieri che si trasformano in note pungenti e pregne di lirismo, nonché di lunghe pause che ne accrescono il valore poetico. Giammarco cambia più volte modulo e registro, ma in sintesi fa soprattutto se stesso, ossia il saper essere un incubatore di linguaggi molteplici da restituire al mondo degli uomini con evidente personalità e caratterizzazione. Registrato all’Excalibur Studio di Milano per la Gala Records, nel luglio del 1988, “Hornithology”, è un album che mette in risalto l’eccelsa qualità del jazz italiano degli anni Ottanta, spesso sottovalutato o dimenticato.
