// di Francesco Cataldo Verrina //
Krzysztof Komeda è forse il jazzista dell’Est europeo più famoso di tutti tempi. Pianista e compositore classe 1931, nasce 27 aprile a Poznan in Polonia. Il suo vero nome era Krzyszstof Trzciński. Ci fu un momento in cui, in termini di contenuti, il repertorio del Krzysztof Komeda Sextet veniva considerato una sintesi dei più noti gruppi jazz dell’epoca, come il Gerry Mulligan Quartet ed il Modern Jazz Quartet. Il giovane Krzysztof riceve le prime lezioni di pianoforte a Ostrów Wielkopolski, quindi entra al conservatorio di Poznan. Alla fine della seconda guerra mondiale decide di studiare medicina prendendo contatti con la scena jazz underground di Cracovia, dove molti studenti s’incontrano clandestinamente in appartamenti privati o in locali notturni seminascosti.
L’interesse del pianista per la musica americana e per la musica swing spazia dal Dixieland e dal Bebop al jazz contemporaneo; ciò gli consente di ottenere il suo primo riconoscimento nazionale nell’agosto del 1956 al 1° Festival Jazz di Sopot con il Sestetto Komeda. Da allora, il medico otorinolaringoiatra comincia ad usare lo pseudonimo di Komeda per nascondere ai suoi colleghi medici la grande passione per un genere musicale che all’epoca, in Polonia, era ancora bandito o accolto con sospetto. Dal 1956 al 1962 seguono altri festival in patria e all’estero (Mosca, Grenoble, Parigi); contemporaneamente il musicista polacco inizia a comporre musica per il cinema. In totale ha scritto colonne sonore per 65 film. I più noti sono tutti legati al regista Roman Polański: «Nóż w wodzie (Il coltello nell’acqua)», «La danza dei vampiri» e «Rosemary’s Baby» con cui Komeda ha ricevuto una nomination ai Golden Globe, quale miglior composizione musicale del 1969.
Nel 1962 il musicista polacco presenta i suoi Ballet Études al Jazz Jamboree, ma le sue composizioni in patria vengono accolte con freddezza, per contro gli spianano le strade di una fulgida carriera europea. A questo punto il pianista si esibisce come ospite nelle sale da concerto di Stoccolma e Copenaghen, nei festival jazz di Praga e Bled, a cui si aggiungeranno varie tournée in Bulgaria e nelle due Germanie. «Astigmatic» registrato nel 1966 in quintetto con Tomasz Stanko e Zbigniew Namysłowski, è considerato come una delle espressioni più riuscite dell’estetica jazzistica europea indipendente, nonché come uno dei capisaldi del jazz di tutte le epoche. Nel 1967 corre qualche rischio pubblicando un disco di poesie polacche tradotte in tedesco, «Dichtung und Jazz», progetto politicamente pericoloso ed insolito nell’era della Guerra Fredda. Dopo aver trascorso quasi un anno negli Stati Uniti, al seguito di Roman Polański per le realizzazione delle musiche di Rosemary’s Baby, rimane coinvolto in un rovinoso incidente: dopo un litigio amichevole (come racconterà Roman Polanki) con scrittore Marek Hłasko durante una festa, fu spinto in un dirupo riportando irrimediabili ferite alla testa. Komeda Muore a soli 38 anni a Varsavia in Polonia, il 23 aprile 1969, dove era giunto in condizioni irreversibili proprio a causa dei traumi cerebrali riportati durante il surreale incidente americano.
Krzyszstof Komeda – «Astigmatic» 1966
Secondo alcuni critici, di cui condivido pienamente la valutazione, «Astigmatic» è da annoverare fra i 100 dischi più importanti della storia del jazz moderno, ad abundantiam, il disco di jazz più originale mai registrato in Europa, di sicuro uno degli album post-bop più interessanti degli anni ’60, un capolavoro, ma per molti solo uno dei tanti ancora da scoprire. L’artefice fu il polacco Krzyszstof Trzciński pianista per diletto e otorinolaringoiatra di professione, il quale proprio negli anni Sessanta cambiò nome in Komeda, appellativo più semplice e facilmente pronunciabile anche all’estero, ma soprattutto per evitare le attenzioni sia dell’autorità politica polacca sia dell’ordine dei medici di quel paese. Era un’epoca in cui, al di là della cortina di ferro, in Polonia la pratica del jazz era una faccenda poco tollerata.
«Astigmatic» fu realizzato da un quintetto multinazionale in uno stato di grazia: il trombettista polacco Tomasz Stankone, sideman assai noto negli ambienti, ma il vero fenomeno fu l’altoista Zbigniew Namyslowski, artefice di una progressione vertiginosa, di coltreiana memoria, mentre il tedesco Gunter Lenz al contrabbasso e il batterista svedese Rune Carlsson formarono con Komeda al pianoforte, la sezione ritmica. Tutti suonarono con un forte senso di collegialità, un’intensa ed irripetibile emotività e come se dovesse essere l’ultima volta. Scrive Guido Michelone: «Capolavoro è l’iniziale title-track di circa ventitrè minuti con intro melodica sfibrata dal sapore balcanico della tromba, a cui segue, acquisendo fisicità sonora, un crescendo “modale” di proporzioni ancestrali: la batteria pulsa nervosa, mentre il pianoforte, grazie a linee di fuga prolungate (sempre fedeli agli schemi modali), risulta vivace e irrequieto, a calarsi nel ruolo di direttore orchestrale, onde pilotare il quintetto verso un european feeling in termini di coesione emotiva; la tromba disegna trame inquietanti dai cromatismi netti, aspri, potenti, espansi dentro un’angoscia esistenziale comunque trascendente. Il pianismo di Komeda pare rileggere Cecil Taylor alla luce del romanticismo chopiniano, l’azione di Stańko è segno deciso, terribile, poetico nella storia dello strumento, ricavando una vocalità dolce e dilaniata, fra la sobria inquietudine di Davis e le lunatiche turbolenze di Cherry. L’alto accetta la sfida con un’esegesi intricata e stratificante, in grado di tradurre in lirismo mitteleuropeo le genialoidi cacofonie di Ayler, Coleman, Coltrane. L’epilogo è da brivido, coagulando il meglio dei cinque in un crescendo via via pulsante, parossistico, perentorio. A sottolineare l’european feeling è poi il tono melodico radicato nelle tradizioni musicali polacche ed Est Europee».
Krzyszstof Trczinsky, al secolo Komeda, era riuscito a distillare una sonorità molto originale, merito anche di una certa obbligata clandestinità. La difficoltà nel reperire i materiali americani, aveva portato molti musicisti dell’Est europeo di quella generazione ad inventarsi qualcosa di diverso, lavorando di fantasia ed attingendo alla propria tradizione culturale. «Astigmatic» adotta il modello del jazz d’avanguardia di quegli anni attraverso una perfetta di combine di elementi sonori imperniati su tre composizioni originali di Komeda, lunghe suite che fondono i colori accessi delle musiche popolari, il jazz modale, la progressione ritmica del free e le tipiche impennate del funk-jazz afro-americano. L’interminabile suite srotolata nella title-track consegna ai posteri un piccolo gioiello a volo libero senza schemi ingabbianti e paletti limitanti, dove un’incontenibile energia propulsiva innesca un turn-over sonoro inarrestabile e proiettato verso l’infinito. «Astigmatic», non è facile moneta di scambio, pagabile a vista al portatore, necessita di un piccolo lavoro di mediazione, prima di ottenere la transazione ad un sublime stato di godimento. La quadratura sonora è perfetta, ma non esiste prevedibilità. Al terzo ascolto vi conquisterà, producendo una sorta di dipendenza. Un album che arricchirà di certo la vostra conoscenza del jazz.


EXTRA LARGE
Krzystof Komeda Quintet – «Jazz Jamboree 63»
Ciò che ha reso unico questo jazzista outsider è certamente la sua capacità di sviluppare improvvisazioni su temi classici ed, al contempo, un uso più percussivo del pianoforte, che gli consentiva di estrapolare da un ambientientazione compositiva eurodotta, rigidamente trascritta, sia pur sospesa ed intima, una sfumatura di ambiguità implicita, talvolta diatonica e dissonante. Il linguaggio di Komeda si contraddistingue per le melodie ariose e ricamate, mai concluse pienamente, ma volutamente lasciate aperte come porte socchiuse in attesa che arrivi una nuova idea; quasi come l’effetto prodotto da una stanza degli specchi, in cui non si riesce a capire la posizione del soggetto da individuare e dove tutto rimane senza confini o punti di riferimento ben precisi; come una vertigine ininterrotta o una voce che si riverbera attraverso una lunghissima eco. La limpidezza del suono di Komeda appare talora romantica in senso tradizionale, tal’altra venata di tragicità, di oscuri presagi o di un qualcosa di indefinibile che possa atterrire il fruitore, poiché collegato all’ignoto. In alcune circostanze il pianista fa ricorso ad una pronuncia jazzistica dichiarata e lapalissiana per compiere incursioni in un territorio a lui assai caro e fatto di lunghe progressioni improvvisative.
Il disco in oggetto si riferisce allo storico Krzystof Komeda Quintet ripreso dal vivo al Jazz Jamboree Festival di Varsavia del 1963 e rappresenta un importante tassello nella storia della musica est-europea. Il pianista di Poznan guida un eccellente combo costituito da alcuni dei più accreditati musicisti jazz polacchi, come Tomasz Stanko (tromba), Michal Urbaniak (sax tenore), Maciej Suzin (basso) e Czeslaw Bartowski (batteria). Komeda, Stanko e Urbaniak sono stati tra i pionieri, tra coloro che hanno effettivamente aperto la strada al jazz polacco. La fluente ed eclettica concezione musicale di Komeda è stata una sintesi perfetta tra il tipico lirismo slavo, infarcito di classicismo e sonorità indigene e le varie influenze americane ed afro-americane. L’album include una sorprendente versione di «Ballad From Knife In Water» tratta dalla colonna sonora di un film di Roman Polanski del 1962. In sole tre lunghissime tracce, Komeda e compagni toccano molti punti nevralgici del jazz, muovendosi agilmente tra avanguardia e tradizione, spaziando da Count Basie a Coltrane, da Cecil Taylor a Duke Ellington, senza mai perdere il contato con quello che era lo spirito primigenio del jazz Polacco.