// di Francesco Cataldo Verrina //
Sylvester rappresentò l’energia della voce applicata alla «disco music». Le sue corde vocali si mostrarono, sin dall’inizio, come un’arma perfetta al servizio della dance: un falsetto senza eguali, atteggiamenti iconoclastici e ritmi veloci interpretati con l’ambiguità tipica di chi aveva fatto della trasgressione la via maestra della propria esistenza.
Un volto cicciotto, imbiancato di make-up, due occhi enormi cerchiati di bistro, due labbra sensualissime coperte di rossetto, una parrucca di ricciolini color della pece, una scollatura che permetteva di intravedere un torace glabro e sensuale, una stazza di almeno centoventi chilogrammi ed ecco a voi Sylvester nel pieno del suo fulgore. Personalmente ero convinto che le tanto sbandierate virtù gay dell’artista di colore potessero trarre in inganno i soliti bigotti e le malelingue di mestiere: per alcuni, troppo esibizionismo nascondeva un credito millantato. Ma prima di scendere nei particolari rilevati personalmente dall’incontro con corpulento artista di colore, mi sembra che sia il caso di fare un po’ di storia (almeno quella ufficiale). Se i ragazzini attaccati alle gonne della mamma vengono chiamati «mammoni», Sylvester può essere ben definito un «nonnone». Ogni momento della sua vita, infatti, fu contrassegnato da questo rapporto ombelicale con la nonna che lo allevò, che lo spinse tra le braccia della musica, che per prima si accorse delle tendenze omosessuali del nipote. Nato a Los Angeles, e nel cuore dello show-business, come ogni piccolo borghese che si rispetti, Sylvester cominciò a cantare nel coro della chiesa: ciò accadeva alla fine degli anni ’50 e ben presto divenne il giovane divo delle comunità religiose della West Coast.

Julia Morgan, la già citata nonna (non si sa se paterna o materna), una cantante di blues che nei ruggenti anni ’30 aveva conosciuto una discreta fama a livello di teatri e locali di seconda categoria, aveva girato in lungo ed in largo gli States, riportando con sé quelle impressioni che dovevano servire a spingere più tardi il nipote sulla strada del musical. Fu lei stessa – come già detto – a scoprire l’orientamento sessuale di Sylvester, provocando in lui una crisi che lo portò ad abbandonare la chiesa ed il canto. «Ero troppo occupato a fare la regina nera di Sunset Strip», raccontò lo stesso Sylvester, ben presto costretto,a traslocare a San Francisco alla ricerca di un ingaggio. Fu proprio in quel di San Francisco che nacque l’astro Sylvester: nel 1970 veniva inaugurato il New Year’s Eve, così le Cockettes divennero rapidamente le stars dello spettacolo. Le Cockettes erano uno staff composto quasi interamente di travestiti che a partire dal 1969 erano diventati i beniamini del pubblico grazie alla messa in scena di uno spettacolo trasgresivo e provocatorio. Sylvester venne immesso nel gruppo e ben presto ne divenne il leader, accentuando ancor di più la sua mania per i lustrini e le paillettes, ma soprattutto ricominciando a studiare canto e musica. Fra i pezzi forti del gruppo c’erano vecchie canzoni di Bessie Smith e di Billie Holiday, cosi come brani di musical e scatenatissimi rock’n’roll: fu questa una vera scuola e palestra di vita dove il mastodonte nero perfezionò le sue già consolidate doti vocali, espressive e musicali.
Abbandonate le Cockettes, Sylvester si diede da fare come solista: per un paio d’anni Rubino Blu (questo fu il nome d’arte scelto dal cantante, il quale si presentava travestito da donna): con questa nuova identità estetica fu in cartellone al Rickshaw Lounge ed a Chinatown, finché Jann Manner del Rolling Stone non pensò di portarlo in uno studio è fargli registrare qualcosa. Nacquero cosi un paio di nastri sperimentali realizzati insieme a Boz Scaggs ed a Ben Sidran, ma niente di ufficiale. Nel 1973 l’incontro con la Blue Thumb: la casa discografica di San Francisco con cui incise tre albums, il secondo dei quali, intitolato «Scratch My Flower». Strofinando le mani, sulla copertina, dal disco si liberava un forte odore che, nelle intenzioni avrebbe dovuto essere profumo di gardenia (lo stesso che sembrava essere il preferito da Sylvester). Dopo un periodo di riposo in Europa, Sylvester tornò a San Francisco dove formò un gruppo composto da cinque musicisti e due cantanti di colore (Ezoara Rhodes e Marta Wash, ossia le Two Tons Of Fun) iniziando a lavorare nei clubs (cosa che fece per lungo tempo e con la stessa formazione). Poi arrivò la Fantasy, la sua principale casa discografica, quella del lancio mondiale, con cui realizzò due albums, dal secondo «Sep II» fu tratto il brano che per lungo tempo impazzò nelle discoteche di tutto il mondo: «You make me feel» e che ancora oggi è considerato un classico senza eguali.
Nel 1979, registra «Stars (Everybody Is One)» e fa il suo debutto cinematografico in «The Rose» al fianco di Bette Midler. Nello stesso anno vince anche tre Billboard Awards e un alto riconoscimento quale «migliore artista maschile» scelto da Disco International Magazine. Nel giro di pochissimo tempo diventa una star della disco grazie ad alcuni potentissimi dancefloor-filler come «Dance (Disco Heat)», «Can’t Stop Dancing», «Do You Wanna Funk»,prodotto da Patrick Cowley. Il singolo è tra l’altro presente nella colonna sonora del celebre film diretto da John Landis, «Una poltrona per due». Con la scomparsa di Patrick Cowley, la musica di Sylvester cambiò registro pur rimanendo nel roster della Megatone Records fino al 1985. Tutti i suoi pezzi influenzeranno la dance music per anni ed ancora oggi sono ballati nelle discoteche di tutto il mondo. Sylvester amò esprimere sempre il suo pensiero in maniera scioccante da vera «prima donna». La leggenda narra di una sua dichiarazione ad un reporter, al quale disse di voler sposare il principe Carlo di Inghilterra per diventare la Regina del Regno Unito.
Il declino della disco music coincise con problemi fisici sempre più gravi: Sylvester si ammalò di AIDS e non ottenne particolare successo svoltando verso il rock e l’R&B. Durante l’ultima estate della sua vita partecipò al Gay Pride nella sua amata San Francisco: su una sedia a rotelle, circondato da amici e da decine di persone ignare che fosse un’icona della disco-music e del movimento gay. Divine e Ru-Paul furono incoraggiate e ispirate dal suo estro sul palcoscenico, e più persone sostengono che il suo stile vocale (che spaziava dal registro basso al falsetto) abbia influenzato perfino Prince. Muore nel 1988 stroncato dell’AIDS, a conclusione di una vita breve ma intensa e vissuta all’insegna della autodistruzione, quale momento di massima espressione ed autocelebrazione, come solo i grandi della musica hanno saputo fare.

Grazie ad un amico che lavorava alla Fonit-Cetra ebbi l’occasione di conoscerlo ed incontralo a Venezia, durante una mattinata stupenda in un giardino di uno dei più vecchi alberghi lagunari con la «divina» stravaccata in mezzo ai fiori, mentre sorseggiava champagne. Per non fallire, mi ero scritto tutte le domande, le mie scorte di inglese scolastico, avrebbero potuto esaurirsi molto facilmente, anche se il mio amico promoter lo parlava in maniera fluente. In verità, il management pretese di avere le domande scritte, anche se poi qualcuna venne modificata in corsa. Sylvester era al climax del suo splendore artistico e commerciale, quindi, a detta dei suoi «protettori», non poteva rischiare di fare qualche dichiarazione controproducente. In verità, le sue risposte furono alquanto evasive ed essenziali. Riportiamo l’intervista raccolta nell’occasione, anche perché di notevole interesse sotto un profilo psicologico. Nonostante la disinvoltura, il personaggio tradisce molte fragilità, soprattutto, leggendo tra le righe, si evince la figura di un artista, ma ancor prima di un essere umano sulla difensiva, cresciuto fra mille difficoltà di adattamento e costretto a convivere con la sua diversità. Il fatto di non voler dichiarare punti di riferimento o modelli ispirativi ne è una conferma.
La scena che comunque si svolgeva sotto i nostri occhi era la seguente: Sylvester aveva un aspetto simile a quello di una corpulenta cantante lirica con occhio vacuo e teneramente sonnecchiante, abbigliamento flou in cui abbondava il rosa, cinque anelli per ognuna delle mani, una catena d’oro del peso di qualche ettogrammo che faceva capolino fra le pieghe del jabot della camicetta, artisticamente drappeggiata a mostrare e contemporaneamente negare le grazie toraciche e la leonina criniera, artificialmente scomposta a farsi baciare dal sole ed accarezzare dalla brezza del vento. Il grottesco della situazione veniva ancor più accentuato dal fatto che l’artista californiano pesava oltre un quintale, ma si mostrava disinvolto in tutta la sua naturalezza con grande non chalance, come colui che sa di essere diverso e non vuole nasconderlo, anzi ne fa una carta vincente sottesa da una lieve ostentazione.
Sylvester affermava di essere un provocatore esclusivamente in senso musicale, mentre lamentava il fatto che il pubblico fosse invece attirato solamente dalle sue tendenze sessuali e dallo sfarzo dei suoi costumi. Personalmente sono convinto che non fosse un provocatore, ma proprio per i motivi lamentati dall’artista, mentre dal punto di vista musicale era indubbiamente molto ben preparato, possedeva una voce che avrebbe potuto essere utilizzata molto meglio per il blues o lo spiritual, ma le sue musiche chiaramente, in quel periodo, risentivano dell’esigenza «pagnottiera» del momento, la disco-music, che in quegli anni aveva contagiato, come naturale, quasi tutti gli artisti di colore, ma anche alcune delle più importanti stars del pop-rock bianco. Per quanto riguarda invece lo spettacolo, era facile comprendere un’autoironia fortissima, un modo di esecrare fatto con l’esatto contrario di quello che il pubblico si aspetta. Un artista tradizionale avrebbe probabilmente inserito sul palco uno staff di deliziose fanciulle seminude, proprio per accentuare il contrasto fra il corpaccio (pur ricoperto di lustrini) di Sylvester e quella che è considerata l’idea della bellezza. Il nostro eroe si era invece presentato con un paio di balene inguainate in raso rosso che, al limite, lo facevano diventare una Silfide: quanto questo fosse intenzionale proprio per il motivo appena esposto, e quanto invece lo fosse per dissacrare le forme tradizionali di spettacolo, non ci fu concesso sapere, anche perché quando glielo abbiamo chiesto la risposta è stata sempre la stessa: «I don’t know».
D. – Pensi che, soprattutto partendo dal tuo successo, la disco music avrà vita lunga ancora per molto, oppure cambierà in qualcos’altro?
R. – Non so: se cambia, cambia, se no rimane.
D. – Ma se cambia. dove va?
R. – Non ho idea, dipende dai musicisti.
D – Ma, considerate le matrici jazz, pop, rock, verso quale, preferibilmente si sta orientando?
R. – Non so: io preferirei il jazz.
D. – Come mai quasi tutti i musicisti afro-americani a questa domanda rispondono sempre il jazz?
R. Non so: il mio background è il jazz o il gospel.
D. – Tutti sanno che la disco music in America ha diverse scuole (Detroit, Miami, New York, Philadelphia ecc.). Quale di quelle nominate consideri la tua preferita?
R. – Non so, credo nessuna, io sono californiano.
D. – Quindi stai dando vita ad una nuova scuola, quella della disco music westcoastiana?
R. – Non so!
D. – Tu non sei uno di quei prodotti esclusivamente da studio, pensi che molti tuoi colleghi invece non tali, ossia quelli costruiti in vitro, possano non avere vita lunga?
R. – Non so, se il prodotto è buono vende, in caso contrario no.
D. – Ma essendo tu californiano purosangue, sei stato influenzato magari dal jazz anni ’50, dal flower-power, dal rock californiano?
R. – No, non so… forse nessuna influenza.
D. – Ma qualcosa ci sarà che hai ascoltato, vissuto, e che ti è piaciuto…
R. – Non so: forse l’energia…
D. – Oppure che cosa?
R. – Non so… non so… non so..
Sylvester fu la prima star di colore dichiaratamente gay e, a differenza dei Village People, non fu una caricatura in balia del mercato dell’usa e getta; né sfruttò mai la propria diversità a scopi promozionali o di tipo commerciale come invece fecero, nel corso degli anni, numerose rock-star bianche: smentite, tentennamenti, ripensamenti e mutamenti embrionali in funzione dell’uscita di un disco o di un film. I suoi spettacoli erano trasgressivi e «selvaggi», la sua personalità eccentrica, ma soprattutto era un intrattenitore sincero e talentuoso, professionale e ben educato al canto.
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