Eric Dolphy – «The Great Concert Of Eric Dolphy», 1974

// di Francesco Cataldo Verrina //

Eric Dolphy è stato uno dei migliori performer dal vivo e «The Great Concert Of Eric Dolphy» documenta uno dei momenti più esaltanti della sua carriera. Dopo aver lasciato l’ensemble di Charles Mingus e aver lavorato con John Coltrane, Dolphy decise di mettersi in proprio, formando un quintetto di breve durata ma fondamentale per il modello espositivo imposto. Al suo fianco c’era il geniale, ma sfortunato trombettista Booker Little, che sarebbe morto per uremia tre mesi dopo questa registrazione.

Grazie ad un talento non comune, Booker stava per intraprendere una promettente carriera con un radioso futuro davanti a sé, ma un triste destino lo attese al varco ed un grave malattia lo stroncò il 5 ottobre 1961 all’età di soli ventitré anni. Il talento di Little fu tale che, nell’arco di una breve attività artistica durata poco più di tre anni, registrò quattro album come band-leader, partecipando a numerose session con Max Roach, John Coltrane, Donald Byrd, Eric Dolphy ed altri. In poco tempo, il trombettista ha lasciato ai posteri tanti piccoli gioielli sonori, quanti molti comuni musicisti non sono riusciti a mettere insieme neppure nello spazio di lunghe carriere durate decenni. L’unione con Eric Dolphy spinse Booker verso nuove vette esplorative, corroborando l’unicità del suo stile. Un fraseggio distintivo ed atipico lo differenziavano dagli altri importanti trombettisti dell’epoca, come Lee Morgan e Freddie Hubbard, soprattutto quando le sue improvvisazioni divennero più difficili, la tecnica impeccabile e il controllo dello strumento meticoloso.

Booker Little aveva un suono a tratti malinconico ed inconfondibile contrassegnato da un’articolazione nitida; i suoi salti intermedi guardavano verso le avanguardie, ma sapeva muoversi agevolmente nell’ambito dell’hard bop. Era in grado di mettere insieme linee sonore sagomate e facilmente intellegibili, mostrandosi, per contro, poco incline al fraseggio convenzionale e per nulla confinato ai modelli praticati dai suoi coevi; spesso si liberava con disinvoltura dal diatonismo e dal blues, focalizzando la sua attenzione sull’estensione armonica e la dissonanza. Il suo modo di suonare era talvolta obliquo, puntellato da ampi salti intervallari e da lunghe note scagliate all’improvviso nel mezzo di frasi generate con una tecnica atta a creare effetti ricchi di pathos. Dotato di un orecchio assoluto ed un innato lirismo, Booker Little ha generato spesso improvvisazioni ambiziose, che difficilmente altri sono riusciti a suonare e replicare con la medesima intensità.

Nonostante tutti gli ostacoli e le successive tragedie, il quintetto, nel corso degli anni disseminò sul proprio cammino un’aura di leggenda, divenendo un modello ideale ed un paradigma ispirativo per tutte le formazioni d’avanguardia venute dopo. Per circa due settimane, Dolphy si era esibito al Five Spot di New York in quintetto insieme a Booker Little, il pianista Mal Waldron, il bassista Richard Davis e il batterista Ed Blackwell. Il 16 luglio del 1961, l’esibizione fu completamente registrata ed il contenuto dei nastri venne pubblicato su tre dischi. A parte il piano che, in alcuni frangenti risulta più arretrato ed in ritardo, la tensione emotiva è costante. Le sette lunghe tracce, nella media oltre i 12 minuti con «The Prophet» che oltrepassa i 21, tutte composte da Dolphy, Little o Waldron (tranne lo standard «Like Someone in Love»), offrono alla band un ampio spazio in cui distendersi e sviluppare lunghe improvvisazioni. Il potere combinato di Dolphy e Little, esplorando apertamente i nuovi moduli espressivi del jazz, ma senza cadere nella trappola dell’eccessiva dissonanza e atonalità, li rese bersaglio dei critici più retrivi e reazionari, ma ammirati dalla crescente massa dei seguaci del post-bop progressivo in via di sviluppo.

«Fire Waltz» dimostra perfettamente come il fuoco creativo bruciasse l’anima di questi cinque brillanti provocatori, esaltati dall’acido contralto di Dolphy e dalla tagliente tromba di Little. Furioso l’assolo di Dolphy sostenuto dai tamburi di Blackwell che ne ravviva il percorso con un ritmo costante di 3/4. «Bee Vamp» è un ruggito ed una dichiarazione di guerra, dove il tandem di prima linea, si unisce, si spezza, si separa e si allontana ripetutamente lanciando potenti bordate, Blackwell dal canto suo attizza il fuoco del ritmo con decisione e precisione, mentre il clarinetto basso di Dolphy raggiunge profondità abissali, fissando un modulo operativo standard che influenza ancora i cultori di questo strumento. «The Prophet» è un blues aperto ed armato di frasi minori e armoniche allungate. È qui che Mal Waldron al piano e Richard Davis al basso rispondono alle audaci affermazioni di Dolphy e Little con un accompagnamento volutamente scomposto e sgranato.

Come già sottolineato, il gruppo mostra anche un’ottima propensione compositiva su un tipo di materiale tematico molto dissonante. La musica di Dolphy sia su contralto, clarinetto basso o flauto supera ogni categorizzazione, mentre Little si sostanzia come la nuova tromba, degna di nota, ad emergere dopo la morte di Clifford Brown avvenuta nel 1956. «The Great Concert Of Eric Dolphy» è un set eccellente che ha fissato su disco, ad imperitura memoria, il miglior gruppo di Dolphy di sempre, nonché una delle più innovative band stabili dell’epoca. La tripla confezione con inserto, contiene gli album «Live At The Five Spot / 1 e 2» ed «Eric Dolphy Memorial Album», già pubblicati singolarmente e ripresi dal vivo, il 16 luglio 1961 a New York, da Rudy Van Gelder. Dopo la pubblicazione del triplice album nel 1974 da parte della Prestige, molti, con il senno di poi, rivalutarono queste performance live, riconoscendo Dolphy come uno dei fautori di quel «tipo musica» che aveva deviato il corso della storia del jazz moderno, tanto quanto le innovative escursioni di Ornette Coleman e John Coltrane.